SE SI VOLESSE. IO VORREI

di Silvia Di Fresco 

 

«Prof. io non ce la faccio perché non sono capace». Indifferentemente pronunciano questa frase Giulio, Yassin, Mohammed, Paolo, Marco, Luca. Di solito maschi, di solito molto vivaci, di solito quelli che abbandonano. Quindi – penso io – la scuola non serve a niente, ovvero serve a chi non ne ha bisogno.

 

In terza media un gotha di insegnanti indirizzano i propri studenti verso il loro destino: ai vari licei i bravi, ai tecnici chi non ha voglia di studiare ma qualche carta da giocarsi ce l’ha, ai professionali i somari senza alcuna possibilità. Certo, le eccezioni ci sono sempre, ma sempre di meno. Vale poi la pena segnalare alcune stranezze: all’ultima categoria di cui sopra appartengono di norma coloro che vivono in contesti socio-economici difficili, mentre dalla prima sono quasi del tutto assenti i migranti. Sicuramente coincidenze.

 

Fatto sta che quando, il primo giorno di scuola, entro nelle prime, guardo questi 29, 30, 31 (pre)destinati e mi dico è vero, non hanno speranza. Poi resetto il pensiero, deglutisco, lo mando nello stomaco, li riguardo e do il segnale alla faccia di sorridere, alla voce di essere non dimessa se possibile gioiosa, agli occhi di essere fermi. Se tutto va bene, ho indossato la maschera giusta e la sciarada può cominciare.

Primo atto: tentare di convincere tutti con le buone che certe regole vanno rispettate, in primis l’educazione.

Secondo atto: tentare di convincere tutti con le cattive che certe regole vanno rispettate, in primis l’educazione.

Terzo atto: eliminare chi non si è convinto. Difatti so che se voglio fare lezione è necessario fare fuori Antonio che grida tutta l’ora senza stare seduto; Hamza che non porta nemmeno una penna e taglieggia i compagni; Michael che ha problemi cognitivi e comportamentali evidenti ma i genitori non vogliono certificarlo.  Se voglio “salvare” quelli che sono più disponibili a comportarsi nei dovuti modi e quindi più inclini alla vita scolastica, devo per forza di cose indurre gli altri ad andare altrove, di norma a seguire un percorso professionale , cioè un canale altro dalla scuola pubblica incentrato solo sul lavoro manuale. In poche parole devo separare – come disse qualcuno – la pula dal grano.  Appena ho iniziato ad insegnare mi sembrava doveroso nei confronti di chi, sì, era problematico ma più volenteroso, più educato, più buono (tanto per utilizzare una categoria morale ancora molto in uso). E poi mica è corretto abbassare gli obiettivi, se non vogliamo discriminare chi frequenta i tecnici e i professionali il tiro lo dobbiamo alzare, consentire, a chi vuole, di acquisire gli strumenti per andare all’Università, ossia di elevare il loro livello culturale a tal punto da appianare il divario di partenza con i licei. Giocoforza per realizzare tale intento bisognerà bocciare, in prima, chi non è in grado di raggiungere suddetto traguardo, così da arrivare al triennio proprio con una bella classettina. È vero, gli studenti da una trentina arrivano in quinta (di solito articolata) in meno della metà, ma devo ammettere che questa posizione, negli anni, mi ha portato ad avere grandi soddisfazioni, persino qualche alunno riscattato e laureato. Ciò significa che è giusto?

 

Un amico, qualche tempo fa, ha postato su facebook le pagelle del maestro Manzi; accanto ai voti (tutti 10) vi era il seguente giudizio: “fa quel che può, quel che non può non fa”. Ma cosa vuol dire “quel che può”? Perché se il potere lo facciamo coincidere con l’impegno, nessuno dei miei alunni di cui sopra merita niente: loro non fanno nulla né in classe né a casa. E d’altro canto, anche qualora si impegnassero e fossero esenti da problemi di condotta, se non comprendono un testo o non posseggono la letto-scrittura non sarebbe sbagliato promuoverli? Il medico pietoso fa la piaga puzzolente, e il messaggio che passa sarebbe: non importa essere ignorante, ciò che importa è impegnarsi e comportarsi come vuole la società, intesa qui come sovrastruttura politica e non solo. Perché, sia chiaro, per come è messa la scuola secondaria di II grado adesso - e dopo l’applicazione della 107 sarà ancora peggio -non vi è alcuna risorsa per recuperare chi non ce la fa. Certo, si può dichiarare BES, abbassare gli obiettivi, far ricadere tutte le responsabilità familiari e sociali sul docente e il gioco è fatto. Ma da qui ad abolire il valore legale del titolo di studio quanto ci vorrà?

 

Basta, ad un certo punto decido che è ora di cambiare strada. Ho proprio una prima che fa al caso mio. La situazione è la medesima di sempre ma con un’aggravante in meno, sono “solo” 22. Al primo consiglio di classe proviamo ad applicare, con i colleghi, il solito modulo (evidenziamo i casi disperatissimi, chiamiamo i genitori, li reindirizziamo alla formazione) ma è impossibile: sarebbero 18 sul totale! Li facciamo tutti BES? propone un ardito. Sei scemo? poi li fai te tutte quelle verifiche e quei programmi personalizzati?!!! Tiene testa la collega che ha 2 ore in 9 classi. Dobbiamo trovare delle strategie. Chiudiamo la riunione piuttosto sgomenti ma quasi speranzosi. Io, dal canto mio, decido di provare il Cooperative Learning.  La premessa è un discorso motivante in cui chiedo loro chi si sente stupido. Una quindicina di mani si alzano (quelli che le hanno alzate entrambe valgono sempre una). Perché? Rilancio io. Le voci si sovrappongono: «alle medie mi dicevano che non ero capace di far niente» «alle elementari mi mettevano sempre dietro la lavagna (ma non c’era la LIM? n.d.r)» «non capisco niente quando i prof spiegano». Bene, noi dimostreremo prima a voi stessi poi al mondo che non è così. Mi sento che li devo motivare, stimolare, gratificare. Vorrei abbracciarli tutti, mi sembrano dei teneri bimbi indifesi. Li divido quindi in gruppo, assegno loro un compito facile facile, spiego che valuterò il prodotto ma anche il modo di lavorare insieme. La prima volta tutto fila liscio, è meraviglioso a vedersi. Sto persino un po’ più larga nei voti, bisognerà pur incentivarli… il paradiso però dura poco e il secondo giorno è il bailamme assoluto: a darsi da fare sono quei soliti 4 (uno per gruppo), gli altri approfittano per chiacchierare dei fatti propri. A bassa voce, ma che importa? Li detesto, vorrei una bacchetta di altri tempi per colpirli selvaggiamente: non capiscono che è per loro? Per il loro bene?

 

Mi si dirà che è sempre stato così, solo che adesso c’è l’obbligo d’istruzione fino ai 16 anni mentre prima dopo le medie potevi andare a lavorare e allora questi casi qui non li vedevi. E se anche fosse? Poiché è un problema di vecchia data non lo consideriamo come tale? Oppure ci battiamo perché l’età dell’obbligo si riabbassi così da farci avere la coscienza tranquilla? E ancora, non è preoccupante mandare per il mondo ragazzi che – ammesso e non concesso che trovino lavoro – non sappiano comprendere un testo? Quali contratti firmeranno? Cosa si potrà far loro credere? In balia di quali poteri saranno? E in pasto a quali poteri ci manderanno?

 

E poi, la responsabilità di chi è? È davvero solo colpa nostra e dei cicli precedenti? Come ci si è potuti arrivare? Che ne è stato degli ostacoli citati dall’articolo 3? Chi è che non li ha rimossi?  E soprattutto, è possibile invertire la rotta? Trovare soluzioni fattive e non di facciata?

Se si volesse. Io vorrei.