DIECI MINUTI LONTANA DA TUTTO CIÒ CHE BRILLA
di Iuliana Dumitrescu
Avrei voluto essere lontana solamente dieci minuti dalla mia felicità. Sarei andata a trovarla tutti i giorni. Ma a separarci erano migliaia di chilometri, migliaia di strade intrecciate e campi deserti coperti da una grande trapunta bianca. Avrei voluto essere là, con lei. Crescere, imparare, piangere e ridere insieme a lei. Ma invece, ero sempre sola a piangere di nostalgia guardando il cielo solitario dietro quel vetro appannato, talmente sottile da essere attraversato dal vento pungente che regnava sulle notti invernali. Cercavo di non pensarci, così il tempo sarebbe passato più in fretta; cercavo di dire a me stessa che la sua voce, che ogni giorno sentivo, avrebbe sostituito in parte la sua presenza fisica, ma quella voce tanto calma e rassicurante era solo una promessa lontana. Ma nonostante tutta questa grande distanza, la sentivo in un certo senso vicina. Sapevo che c'era, sapevo che prima o poi sarebbe tornata e non mi avrebbe mai più lasciata. In fondo l'aveva fatto per me, per un futuro migliore del suo, per la mia futura felicità.
Ricordo ancora il giorno in cui è andata via. All'inizio ero tranquilla, ma non ero ancora cosciente di ciò che stava succedendo per davvero. Finché all'alba di un giorno qualunque, un'alba fredda e umida a causa di una notte a tratti piovosa, mi sveglio, mi vesto, e in lacrime vengo abbracciata di fronte ad una macchina nera in partenza. Ricordo il lugubre paesaggio morto, innaturale e l'umidità pungente di quella mattinata. Ricordo il giubbotto viola prugna che non poteva vincere i brividi di freddo e paura di quel giorno, e quella sciarpa bagnata dalle lacrime. Ricordo i suoi passi forzati verso quella macchina, i miei occhi rossi e gonfi e tutto ciò che tenevo dentro. Sento ancora il profumo acido dell'atmosfera mescolato all'odore nauseante della benzina, e soprattutto il suo respiro e la sua voce bassa che mi sussurrava piano “ciao tesoro, abbi cura di te”.
Due anni e mezzo, ora come ora, mi sembrano pochi, ma a quell'epoca erano tanti, e passavano così lentamente che mi veniva da pensare che il tempo lo facesse apposta, e mi volesse far credere che non avrei mai finito di attendere. Poi, un giorno, lei ritornò. Era arrivato quel giorno, quell'ora, quel minuto preciso in cui la vidi scendere da una grande macchina bianca. Finalmente ero felice, finalmente la riabbracciavo. Ho pianto con lei. Lacrime di gioia questa volta. Quel giorno mi sentivo talmente forte. Avevo vinto la lotta contro il tempo, la lontananza e l'infelicità, e sapevo che lei non se ne sarebbe mai più andata senza di me, perché la sua sofferenza era stata molto più grande della mia, molto più amara: l'animo dolente di una madre che non può guardare, abbracciare e veder sorridere la propria figlia.
Postfazione
di Luca Castrignanò
Nella trama quotidiana della mia vita scolastica mi è capitato a volte, non di rado, di sentirmi spiazzato da un'alunna o da un alunno, di sentire un brivido per ciò che dice o soprattutto scrive. Credo sia un'esperienza comune tra gli insegnanti anche se invisibile e non valorizzata. In questa eccedenza rispetto al tessuto ordinario della quotidianità scolastica sta probabilmente il nocciolo duro di senso del mio lavoro. Il testo a cui mi riferisco nasce dalla citazione di un film visto insieme (Tout ce qui brille di Geraldine Nakache), uno dei titoli che propongo come compito per casa e che spesso permettono alle/agli studenti di aprire porte inaspettate e a me di accogliere il regalo di un racconto. E’ scritto da Iuliana, una ragazza di prima superiore. Non misurabile, non valutabile, come tutto ciò che conta nella nostra vita emozionale, morale, estetica, checché ne pensino economisti da prima pagina e "Signori Invalsi". A lei riesco a rispondere solo: è molto bello, grazie. E a chiedere il permesso di leggerlo ad altre persone.
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