INSEGNARE PARTENDO DALLE SCARPE
Di Silvia Di Fresco
Quando ho iniziato ad insegnare non pensavo alle condizioni di lavoro in cui mi sarei trovata a farlo.
Avevo frequentato la SSIS, conosciuto futuri colleghi, appreso concetti di cui ignoravo l’esistenza (problem solving, cooperative learning, scaffolding); ai corsi mi avevano detto che bisognava programmare solo dopo aver conosciuto le classi, che era necessario valutare le prestazioni e non le persone, che l’importante della letteratura e della storia, soprattutto in istituti di frontiera, era la possibilità di discussione che ne scaturiva, il senso critico che eravamo in grado di sviluppare. Gli organi collegiali erano fondamentali per il benessere della scuola e per gli apprendimenti, oltre ad essere sovrani per quanto riguardava la didattica. Poi c’era l’Invalsi, un metodo utile – dicevano – per misurare i livelli, per poi fare autocritica, per abituare gli studenti alla comprensione del testo.
All’epoca facevo la commessa per una nota multinazionale di calzature, la quale sosteneva che per vendere meglio il prodotto non ci dovesse essere competizione tra colleghi, quindi le provvigioni venivano distribuite equamente affinché in negozio si respirasse un clima sereno; non solo, la filosofia aziendale valorizzava la personalità di ogni dipendente e, invece di dotare di divisa e di un metodo di vendita standard, dava ad ognuno una somma considerevole per vestirsi secondo il proprio gusto di modo che il cliente di turno potesse rispecchiarsi non in unico stile e ogni venditore si sentisse libero di adottare il proprio. Per fare sentire maggiormente il senso di appartenenza all’azienda, poi, si veniva assunti a tempo indeterminato dopo sei mesi di prova.
Quando, superato l’esame conclusivo della scuola di specializzazione, mi sono licenziata l’ho fatto quindi non perché mi trovassi male, ma perché il mio sogno era quello di continuare ad avere a che fare con la storia e con la letteratura, di fare un mestiere che mi consentisse di studiare e di contribuire - col mio lavoro - ad attenuare le differenze sociali procurate dalla gerarchizzazione del sapere. Per questo avevo optato, pur potendo abilitarmi per i licei, per i Tecnici e i Professionali. Il pensiero che sarei stata precaria non mi sfiorava: avrei fatto due o tre anni così e poi sarei stata assunta, non era importante.
Nella prima classe in cui entrai vi erano quasi esclusivamente figli di boss al confino, migranti, ragazzi in case famiglia. La lettura era stentata, per non parlare della scrittura e della comprensione del testo. Il collegio docenti iniziale fu un trauma, i colleghi facevano a gara affinché fossero approvati questa funzione strumentale o quel progetto e nei consigli di classe si parlava solo di sorvegliare e punire. Cercavo di arrabattarmi mettendo in pratica quanto appreso, ma mi sentivo una monade smarrita in un mondo che mi avevano descritto in un modo, pur essendo in tutt’altro. Sarà colpa mia, mi dicevo, si vede che non capisco il meccanismo, come può essere utile pagare ad esempio un ente esterno per un progetto di barman sottraendo ore preziose alle materie di studio, soprattutto laddove ci sono livelli di base così bassi? In sala insegnanti, un collega sulla sessantina che stava per andare in pensione, sbraitava spesso: è tutta colpa dell’autonomia, qui è un progettificio, qui è peggio di un’azienda, scappare, scappare, scappare! È un manicomio, pensai.
Poi la Riforma Gelmini e i tagli. Improvvisamente la paura di non riuscire più a fare quel lavoro per cui avevo rinunciato a un’altra vita, la sensazione fortissima di ingiustizia, la netta e lucida percezione che si colpiva la scuola per minare ben altro. E di colpo la certezza che da sola non ce l’avrei potuta fare, che ciò di cui avevo bisogno era un collettivo in cui lottare, un coordinamento che si battesse non solo contro la precarietà, ma anche per la Scuola Pubblica, concetti questi che oramai mi apparivano in tutta evidenza fortemente connessi.
Fu insieme ad alcuni compagni di corso SSIS che scoprii cosa significavano quelle parole urlate a mo’ di mantra da quel professore di geografia, fu attraverso uno studio collettivo delle leggi precedenti che mi resi conto delle intenzioni di depotenziare la Scuola Pubblica da parte di chi ci governa da vent’anni, e fu sempre insieme a loro che imparai a dire no. No alle ore aggiuntive che toglievano il lavoro ad altri precari, no alle attività non previste dal contratto e pagate una miseria, no ai progetti fruttuosi solo per l’arricchimento di quei pochi che vi partecipano. Intanto, sul piano istituzionale, ci veniva detto che dovevamo fare una didattica per competenze, che era necessario svolgere prove comuni tra tutti i docenti per standardizzare i risultati, che era ora di misurare il merito. L’Invalsi era lo strumento con cui questi punti potevano essere raggiunti e allora avanti con esercitazioni, test, commissioni atte allo scopo. Tutti dobbiamo fare le stesse cose, sicché le programmazioni vanno stilate a monte e uniformate.
Ma non era importante tararle sulle singole classi, ognuna formata da soggetti diversi e, quindi, unica per antonomasia? Sì, infatti la didattica va individualizzata e personalizzata, visto che molti di quegli alunni che una volta avevano il sostegno ora non l'hanno più, però i risultati devono essere uguali. E se su trenta alunni per classe in molti abbandonano è colpa nostra perché non li abbiamo resi abbastanza uguali? Certo, e anche perché non li avete promossi.
Secondo il Miur è necessario: alzare i livelli di apprendimento aumentando il successo formativo con sempre meno soldi e con sempre più studenti; stilare un piano di studio personalizzato per ognuno e svolgere tutti i contenuti previsti dall'alto; lavorare un numero sempre crescente di ore e avere uno stipendio con un valore sempre più basso. Profumo, Carrozza e Giannini, ministri succeduti alla taglia teste Gelmini, hanno continuato sulla sua scia, sottolineando inoltre che se i giovani non trovavano lavoro era colpa nostra perché non li formavamo abbastanza e che quindi il nostro stipendio doveva essere distribuito secondo il merito. Basta con questi fannulloni che non solo fanno tre mesi di vacanza, ma nemmeno sono in grado di fare il loro lavoro. Così il cerchio, con la legge 107, si chiude: il Rapporto di autovalutazione e l’Invalsi decideranno la nostra didattica, i presidi sceglieranno i loro docenti e li metteranno in competizione tra loro attraverso un misero valore al merito e lo spauracchio della valutazione, i ragazzi verranno educati sempre più a rispondere ai test mediante una didattica ad hoc (il nostro valore d’altronde verrà giudicato in base a tali dati) e a diventare lavoratori flessibili e gratuiti. Nel mentre però – bisogna proprio dirlo – in 102734 precari siamo diventati di ruolo, dunque rompessimo meno le scatole (o i maroni, come si dice a Bologna) e ringraziassimo di tutto cuore. Cosa vogliamo ancora? Non diciamo da una decina d’anni che la precarietà rende lo Stato colpevole di non investire nell’Istruzione? E allora? Tacere e lavorare.
Quando qualche giorno fa ho detto sì al lavoro a tempo indeterminato, nessuna gioia mi ha pervaso. Solo tanta rabbia. Nessuno ci ha regalato niente. Il lavoro è un nostro diritto e non dovevamo arrivarci così: merce di scambio di una riforma che adegua definitivamente la Scuola Pubblica alle necessità imprenditoriali, che precarizza con gli ambiti territoriali il lavoro di tutti, che ci mette in guerra gli uni contro gli altri, che impoverisce i contenuti del sapere e allarga ancora di più la forbice sociale. La nostra, la mia assunzione è stato il viatico con cui il Governo è andato avanti nonostante le numerosissime proteste, nonostante i pareri negativi di illustri studiosi, nonostante la democrazia.
Che fare? Ci sono ancora margini affinché il desiderio che mi (ci) ha mosso verso il lavoro di insegnante coincida con la realtà o verremo definitivamente parcellizzati e resi monadi perenni? Rassegnarsi a questa visione significa cessare di interessarsi al dopo, guardare solo il proprio orticello, abbassare la testa di fronte al potere di turno. Potrebbe essere una soluzione, senz’altro non lo è per tutti coloro che credono ancora negli articoli 3, 33 e 34 della Costituzione. È chiaro, la battaglia sarà dura, a lungo termine e noi siamo stanchi, ma se non si propone un modello di scuola differente, un modello che trovi il suo perno nelle discipline d’insegnamento e non nelle vuote competenze, nella cooperazione e non nella competizione, nello sviluppo di spirito critico e non nel teaching to test, il futuro che aspetta noi e i nostri figli sarà drammatico.
Come dice Chomsky «l’istruzione pubblica è una minaccia perché contribuisce a formare la solidarietà, la comunità, il sostegno reciproco» e io voglio che continui ad essere proprio così, altrimenti mi toccherà, come un vecchio trombone, iniziare a inneggiare il passato (tutto tranne che aureo) e a dichiarare che il mondo cambia sempre in peggio perché io ho conosciuto un tempo in cui anche comprando e vendendo scarpe si era educati alla libertà, mentre ora anche andando a scuola si viene educati alla servitù.
A proposito, adesso, in quella nota multinazionale di calzature, i commessi hanno una divisa.
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