SI SCARICHI I VOTI DI SUA FIGLIA
di Gianluca Gabrielli
Nella scuola dove insegno la sfortuna di avere aule bollenti quando il sole in primavera inoltrata manda i suoi raggi quasi verticali è ampiamente compensata dal disporre di un giardino ampio e alberato. Così anche quest'anno, come spesso è accaduto in passato, abbiamo consegnato le schede con le votazioni in cortile, spostando alcuni banchi e sedie mentre le bidelle intensificavano la pulizia in vista dell'arrivo del campo estivo.
La consegna delle schede è un piccolo rituale che si ripete due volte l'anno, gli insegnanti approfittano per raccontare nel dettaglio le ragioni delle valutazioni ma soprattutto – almeno nella mia esperienza – per parlare dei bambini e delle bambine, anche solo pochi minuti, raccontando aneddoti significativi, chiedendo informazioni, aprendo un dialogo sulle personalità in formazione.
Con la collega, soprattutto quando abbiamo da poco tempo una nuova classe, cerchiamo di far parlare i genitori, di farci dire come viene percepita la scuola, come viene raccontata a casa (se viene raccontata), quale immagine hanno del loro figlio o figlia. Spesso la scuola dà ai bambini la possibilità di vivere un percorso sociale in assenza degli adulti di riferimento, quindi è significativo e “utile” sia agli insegnanti che ai genitori mettere a confronto le due immagini della stessa persona.
A volte il colloquio è anche occasione per saluti e occhiate di intesa e preoccupazione fatte direttamente dalle bambine e dai bambini, presenti ma tenuti in anticamera durante lo scambio tra adulti e infine chiamati a condividere questo conciliabolo tra casa e scuola di cui sono argomento centrale. In particolare quest'anno che a me e alle colleghe è capitato di salutare una quinta classe, la presenza di alcuni bambini era superflua rispetto a quelle inutili note valutative, ma era fondamentale come commiato solidale, viatico verso un'estate che li avrebbe traghettati alla scuola dell'adolescenza.
Il colloquio della consegna schede è quindi un momento cruciale, occasione nella quale non solo si possono scambiare informazioni (sottolineo ancora la biunivocità del verbo) ma anche rafforzare fiducie, lanciare intese, segnali, a volte anche confrontarsi con franchezza sui problemi, non perché li si possa risolvere in quella sede, ma per darsi la possibilità reciproca di inquadrarli meglio. Ho amiche che insegnano in scuole ad alta percentuale di studenti e studentesse migranti; in queste situazioni poter parlare guardandosi negli occhi e sorridendosi con i genitori diviene l'unico viatico possibile per trasmettersi fiducia reciproca e iniziare una comunicazione che vada al di là del voto numerico.
Ma – si dirà – cos'è questo panegirico non richiesto? Perché raccontare queste cose? Cosa c'è dietro?
Ho pensato di scrivere queste righe quando ho saputo che in un istituto di Bologna, la città dove insegno, terminato l'anno scolastico il dirigente ha deciso - inizio di giugno - di comunicare a genitori e insegnanti l'annullamento dei colloqui già calendarizzati. I genitori avrebbero consultato e scaricato le valutazioni numeriche dei profitti dei loro figli e figlie dalla piattaforma informatica, essendo stati fatti scrutini elettronici a completamento del registro on line. Anche gli insegnanti – mi dicono – hanno appreso dalla circolare la novità, quindi senza essere interpellati sull'opportunità del mutamento. Chiedendo ad altre colleghe ho poi capito che non si trattava della prima scuola che – pur con modalità meno imperiali – aveva disdetto il colloquio.
Nulla di nuovo sotto il cielo. L'idea che le relazioni umane siano sostanzialmente una perdita di tempo che comporta solo complicazioni organizzative guadagna terreno, conquistando territori talmente radicati nella tradizione della scuola italiana che nel tempo avevano guadagnato anche un riconoscimento contrattuale con ore dedicate (art. 29 Ccnl 2006-09: “informazione alle famiglie sui risultati degli scrutini trimestrali, quadrimestrali e finali”). Non è che la cancellazione del colloquio alla consegna schede sia il fulcro di un cambiamento, bensì un epifenomeno, come tanti altri; ognuno di essi ci mette sotto gli occhi un minimo slittamento verso un nuovo modello di scuola – e di società – in cui si può provare ad automatizzare tutto ciò che sembra possibile, a prescindere dal bilancio finale in termini di crescita della reificazione e di perdita della relazione. Difficile che se ne possano accorgere i genitori, che entrano nella scuola seguendo i ritmi di crescita dei loro figli senza aver la possibilità dei confronti. Impossibile che se ne accorgano i politici, che in questo modello di società si vantano di non poter conoscere profondamente la materia di cui si fanno legislatori. Rimaniamo noi, persone di scuola, insegnanti e dirigenti.
Abbiamo visto che i dirigenti, con atti di imperio, possono addirittura fare decollare il processo, promuoverlo come fiore all'occhiello della scuola, exploit di modernità. Come spesso accade, lo zelo può fare grandi danni. Ma nonostante questa ubriacatura di dirigenzialismo che pervade i governi e la società, alla fine diventa decisivo l'atteggiamento di noi insegnanti. Noi infatti possiamo tollerare questo slittamento, possiamo pensare di non avere la forza per contrastarlo, ritenere che in fin dei conti la responsabilità non è nostra e che, alla fine, tutto si traduce in un'incombenza in meno. Oppure possiamo difendere questi momenti, chiederne nei collegi docenti la sopravvivenza, ritornare a confrontarci su come e perché fare questi colloqui. E' una contesa aperta, pur meno eclatante e di impatto di quella sulla “riforma”; i destini della scuola pubblica però dipendono anche da micro battaglie come questa, da sostenere rivendicando il diritto alla scuola delle relazioni.
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