ROLEX E LA TUTA
di Massimiliano Tagliente
Rolex è entrato in carcere ad agosto, lui e il suo complice. Li hanno presi alle spalle, davanti a una villa della Riviera, e la sera stessa erano al Pratello. È al terzo giorno di scuola media, ci conosciamo appena. Ha una figlia, gli occhi azzurri, legge a stento e se ne vergogna. Sulla mano ha tatuata una cella, un quadrato con un puntino al centro.
Il puntino è lui.
“Come va?” gli chiedo. Dice che va tutto bene. “Tutto normale... Mica piango, adesso. Io lo sapevo che stavo facendo.” Stamattina indossa una tuta grigia. È entrato in aula mezzora più tardi degli altri, l'aria abbattuta, la testa bassa e le mani in tasca. Mentre raggiunge il suo posto, alla testa del tavolo, non guarda niente. Allungo la mano per salutarlo e questo lo risveglia, si dà un minimo contegno e allunga la sua.
Qui dentro i ragazzi si salutano ogni mattina. Ancora gonfi di sonno, quando vengono fuori dalle celle e si ritrovano nelle aree comuni, si stringono la mano e si chiedono da fumare. Se qualcuno non lo fa, non è per distrazione, c'è di mezzo qualcosa che a che fare con la paura, il disprezzo o l'indifferenza. Stringono la mano anche all'insegnante, non se ne dimenticano mai, ed è un gesto che le prime volte mi mette a disagio. Stringo mani di dannati, mi ci abituo e solo un po' alla volta. In fin dei conti mi rassicura, tengo aperto un canale tra me e loro, voglio essere riconosciuto come un simile, non come un diverso. La verità è che di questa stretta mi vergogno.
Mi vergogno di essermi appropriato ambiguamente di un rituale che sottintende valori che disprezzo. Mi vergogno di assecondare questa sceneggiata di fare gli uomini, per di più con ragazzi di sedici, diciassette anni.
Rolex ne ha sedici e proprio come farebbe un sedicenne, non appena si rilassa, la prima cosa che mi mostra è che la sua tuta grigia si è rovinata: lungo il fianco sinistro ha scoperto, e me la indica, una sottile striatura blu che lo sta facendo impazzire.
La mostra a me, ai compagni, perfino all'agente fermo sull'uscio del blindo. “Chiedi alla maestra” dice l’agente. Rolex scatta in fondo all'aula dove la maestra fa alfabetizzazione col Bisonte, ma neppure lei sa suggerirgli alcun rimedio. “È quella lavatrice di merda,” fa Cocò.
Non so a che piano, c'è una lavanderia per i detenuti. Loro adesso sono una ventina e la lavatrice è una soltanto. Ci si può andare in momenti prestabiliti della settimana, uno per volta, e compatibilmente con le esigenze del corpo di guardia che deve accompagnarli. “Io l'altra volta non avevo più un cazzo da mettermi,” spiega Cocò, “allora quando mi hanno fatto andare ho lavato tutto. Sono rimasto due ore nudo davanti alla lavatrice come un coglione. E mi sono raffreddato.” Qualcuno ride. Rolex sbuffa. Deve aver fatto così anche lui – lana, cotone, bianchi, colorati, cappello, lenzuola – tutto insieme nello stesso cestello. Per questo adesso la tuta ha quella striatura: in lavatrice, con la grigia, ce n'era un'altra nuova, blu, ricevuta durante uno degli ultimi colloqui. “Porca puttana!” dice Rolex, afferra una gomma dal banco e la strofina sulla tuta. “Va bene,” faccio, “la tuta ha una striscia blu. Possiamo continuare a lavorare? Poi, da uno come te non mi aspettavo tanta precisione in fatto di stile”. “Che dici? In che senso?” fa lui.
Potrei spiegargliela bene, potrei dirgli: “Guarda, Rolex, tu punti le pistole in testa alla gente e le rapini. Ammetti che sia ridicolo vederti afflitto per una tuta stinta?”, invece gli ripeto la frase di prima, perché del mio pregiudizio mi vergogno. Lui allora lascia perdere tutto, abbandona me e il gruppo e si ritira in bagno per fumare. Uno dopo l'altro, i suoi compagni lo seguono e a me non resta che dire: “Sì, d'accordo, andate in pausa,” e rimango solo evitando con cura lo sguardo della maestra.
Sul braccio destro di Rolex c'è lo squarcio di un proiettile grosso come una vecchia radice; la mattina la sua sveglia è una mazza di ferro che gli agenti battono sulle grate della cella; ancora non sa quanto tempo dovrà restare dentro eppure la mattina si fa bello, in aula entra solo dopo la doccia, ha bisogno del gel per i capelli e si strugge per quel segno blu sopra la tuta.
Forse quest'angoscia la conosco, o almeno vorrei che in questo fossimo simili. Anch’io ho sofferto di certe manie da ragazzino, anch'io credevo che per avere il mondo perfetto mi bastasse la doccia, il gel in testa, dei vestiti di marca e possedere ciò che desideravo. E in fondo era davvero così. Una volta, avrò avuto dodici anni, coi soldi ricevuti a Natale andai da solo in un negozio del centro e comprai il paio di scarpe che sognavo di vedere ai miei piedi. Erano di pelle bordeaux, con una para spessa di gomma bianca. Quell'odore nuovo, magico, lo annusai ripetutamente non appena tornai a casa. Adoravo quelle scarpe ma non mi decidevo a metterle. Non riuscivo ad accontentarmi di un paio di scarpe. Forse esisteva un margine di perfettibilità? Perché, se esisteva, dovevo raggiungerlo. Ma cosa mancava?
Era pomeriggio, credo un sabato, perché in casa ero da solo. Entrai nello stanzino, frugai dentro la valigetta delle cromatine e delle cere accumulate negli anni da mia madre, e trovai uno stick di plastica con la spugnetta imbevuta in cima. Sin dal primo segno che lasciai sulla tomaia, capii che avevo provocato qualcosa di irreparabile. Sulla pelle bordeaux era penetrato un coloro estraneo, molto cupo, e in breve tempo le striature che aggiungevo nella foga di lucidare tutto si sovrapponevano l'una all'altra senza uniformarsi mai. Ad ogni spennellata con cui tentavo di riparare al primo danno, la scarpa assomigliava di più a uno di quei disegni infantili in cui lo stesso colore, spalmato in direzioni diverse, crea una maglia disordinata di tinte diversamente intense ed esteticamente brutte. Fui tentato di verniciare l'intera scarpa ma il disgusto per l'effetto che ottenevo mi impedì di completare l'opera. Se guardare la scarpa tinta mi riempiva di pena, guardare quella indenne ancora nella scatola mi beffava e mi ricordava ciò che avevo perso per sempre.
Non ricordo quanti minuti resistetti con quelle scarpe in casa ad inquinare la mia idea di mondo perfetto, a ricordarmi la mia stupidità e a ravvivare la mia rabbia. L'odore buono e magico era ancora lì nello stanzino e io dovevo al più presto liberarmene. Richiusi le scarpe nella scatola, la infilai in una busta nera e scesi di casa correndo, trafitto dai sensi di colpa nei confronti dei soldi di Natale, del mio errore e dell'estrema riparazione che lo attendeva ai lati del marciapiede. Gettai la busta nera nella spazzatura, attraversai la strada con aria indifferente, risalii le scale con una sensazione di sollievo solo parziale: le scarpe non erano più nello stanzino ma ora bisognava che io le eliminassi anche dalla mia memoria. A questo obiettivo, non so se passò un giorno, due o tre, ad ogni modo lavorò il tempo. Mia madre non si accorse di nulla, né della mia stupidità né delle scarpe. Io ne avevo molte altre e lei aveva ancora un figlio meraviglioso, a parte me e mio fratello.
A fine giornata, quando torna dal bagno e continua a passare le dita su quella striatura blu che non può cancellare, Rolex si siede e mi domanda se con un altro lavaggio la macchia se ne andrà. “Dipende” gli rispondo, e intendo dire che dipenderà da lui, da come la laverà e da quello che la chimica ha previsto per il destino di quella tinta e di quel tessuto. “E allora, se non se ne viene, io la butto,” mi risponde lui. Sorrido. Penso: “Ecco, ti stavo aspettando.” “Ma no! Cosa dici!?” interviene la maestra. Lui la sfida: “Certo! La butto!” e per la prima volta sorride. Poi la serratura viene aperta, il blindo si spalanca e la guardia chiama tutti fuori. Questa volta non cerco la mano di nessuno e nessuno cerca la mia.
Appena fuori dall'istituto mi fermo in piazza su una panchina al sole. La città libera passeggia tranquilla, la testa piena di pensieri e la bocca chiusa. Il mio magone, la mia macchia blu, vorrei tanto sapere dove ha attecchito. Nello stomaco? Dentro la testa? Lungo le spalle? Che cos'è? Come si toglie?
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