LA BALLATA DEL MARE SALATO
di Teresa Rossano
Quando ero bambina mi è capitata fra le mani “La ballata del mare salato” di Hugo Pratt. E' stato l'inizio di un amore travolgente per i fumetti e per i romanzi d'avventura che divoravo insieme ai libri per bambine, quelli che cercavano di insegnarmi ad essere ciò che non ero, docile e ubbidiente. Sono andata avanti così, su strade parallele e inconciliabili, per qualche anno, fino a quando, all'improvviso, mi sono resa conto che queste rette parallele non si sarebbero incontrate da nessuna parte, tantomeno nell'infinito dentro me stessa.
La scoperta vera, però, è stata che io mi identificavo con i personaggi maschili, vivevo le loro avventure. Non ero innamorata di Corto, ero Corto. Viaggiavo sui suoi mari, mi avventuravo solitaria su treni infiniti, verso deserti e steppe. Solo che, anche soltanto a girare in città, noi bambine dovevamo imparare in fretta a schivare il molestatore di turno. Questa consapevolezza l'ho tenuta per me per qualche anno, non troppo per fortuna, perché sono arrivati la politica e il femminismo. Nelle sedi, negli incontri di autocoscienza ho capito che non ero la sola, col self-help ho capito che il mio corpo era adattissimo a gettarsi nell'avventura. Il sogno vissuto attraverso la politica, il noi che si costituiva nelle strade e nelle piazze, la riflessione sempre condivisa, hanno costruito la mia appartenenza, che ancora oggi mi fa riconoscere, anche in luoghi improbabili, quelle e quelli che fanno parte, come me, di quel “noi”.
Mi ha accompagnata, tuttavia, una consapevolezza che non so bene quando sia arrivata, me la sono ritrovata a fianco, come una compagna, forse c'era fin dall'inizio: non ero mai solo e tutta da una parte, le categorie mi si chiudevano addosso e io scappavo da tutte le parti. Di questa specie di “narrazione” di me, ho riconosciuto tratti di entusiasmo e di incertezza in altre e altri, anche in ragazze e ragazzi, lontani nello spazio e nel tempo da quella che ero io alla loro età. Ho riconosciuto identità diverse, che convivevano e confliggevano, in personalità che si stavano facendo strada.
La classe è un luogo incredibile, solo che ci si metta in relazione. Si costituisce in modo privilegiato e unico. Un luogo plurale e meticcio, come solo le classi della scuola pubblica possono essere. E l'insegnante, come i ragazzi, fa parte di questo insieme.
Tutte e tutti arriviamo in classe con il nostro corpo, la nostra storia, il nostro linguaggio, insomma, entriamo in relazione con gli altri, anche a scuola, in modo sessuato. Non potrebbe essere altrimenti. Qualunque tentativo di porsi in modo diverso da ciò che siamo suonerebbe falso e la relazione, anche di apprendimento, risulterebbe compromessa. Allora perché tanti faticosi tentativi per mantenere un atteggiamento neutro quando parliamo delle discipline e mettiamo in atto le nostre strategie di trasmissione dei saperi? “Partire da me” mi aiuta a riconoscere il processo di formazione dell'identità nelle ragazze e nei ragazzi che ho davanti tutti i giorni. A volte la formazione dell'identità di genere è problematica, non è chiara la sua matrice culturale e sociale, la distinzione fra genere e sesso non risulta così immediata e ovvia.
La strada che percorriamo più facilmente nella strutturazione di un contesto di realtà dotato di senso è quella delineata dagli stereotipi. Agli stereotipi affidiamo la costruzione del nostro sistema di conoscenza, essi ci permettono di selezionare, catalogare, riconoscere. Queste descrizioni della realtà vengono negoziate con con gli altri e danno luogo ad un contesto condiviso che permette il vivere sociale. Se la costruzione di stereotipi appare come modalità cognitiva imprescindibile nella costruzione di contesti di realtà dotati di senso, dobbiamo, tuttavia, fare attenzione al passaggio successivo che trasforma gli stereotipi in pregiudizi.
Riguardo al sesso e al genere, ad esempio, tutti noi applichiamo queste categorie in modo automatico, senza ri-negoziarle tutte le volte che abbiamo a che fare con altre o con altri, a meno che non ci troviamo davanti ad “errori” che devono essere “corretti” secondo quei dispositivi di potere che si applicano alla disciplina dei corpi, come diceva Michel Foucault. Mi pongo il problema, solo se chi ho davanti “devia” dai modelli che ho interiorizzato.
I concetti di transessualità, di intersessualità ed il loro stesso superamento, offrono uno scenario drammatico di riflessione sul legame fra natura e cultura, tanto più drammatico se pensiamo alla battaglia che movimento LGBT sta conducendo per la cancellazione dell'obbligo di operarsi per poter accedere ad una identità di genere “istituzionalmente definita”.
Ma cosa intendiamo per “identità di genere”? E in che misura è fondante nella costruzione di sé? Intanto è fondamentale tener conto che la parola identità è bene usarla al plurale. La costruzione di sé avviene in un contesto nel quale le identità, in modo dinamico e fluido, entrano in relazione tra loro: identità di genere, la cui funzione è centrale, ma anche identità generazionale, di classe, culturale, storica, “di appartenenza”.
La presenza di alunne e alunni migranti nelle classi, ha trasformato queste ultime in laboratori dove i concetti di inclusione, di integrazione, di interculturalità, sono stati messi a dura prova. La realtà sfugge alle categorie e la verifica “sul campo” costituisce il solo banco di prova possibile perché consente l'emergere delle contraddizioni, feconde di criticità, presupposto primario dei necessari aggiustamenti di rotta. I ragazzi migranti, e quelli definiti in modo discutibile “di seconda generazione”, ci hanno messi di fronte alle contraddizioni dei nostri sistemi di riferimento culturale. Con il loro rifiuto a rientrare in categorie appositamente confezionate per loro, come condizione per l'accoglienza, costringono la scuola a riflettere su di sé e sulle sue pratiche. In tante e tanti rivendicano appartenenze identitarie multiple: mi sento albanese al 100% e italiano al 100%, sono marocchina e donna che si autodetermina, appartengo alla comunità cinese come al mio gruppo di amici italiani e così via. L'identità, come l'amore, non si divide, si moltiplica.
Quando nelle classi diamo spazio all'auto rappresentazione di sé, ad esempio creando uno spazio narrativo, uno spazio nel quale sia possibile “raccontarsi”, il disagio della frammentazione appare spesso come una proiezione dell'occhio che osserva, gravato della propria visione del mondo. Abbandonare il pensiero dicotomico permette, infatti, di cogliere la molteplicità delle appartenenze, uno sguardo disponibile a spingersi oltre può cogliere l'emergere di identità plurali, provvisorie, in continuo mutamento, che restano invisibili ad una visione binaria della realtà. Spesso, ragazze e ragazzi mettono in atto strategie personali di resistenza che possono rappresentare un'occasione importante per ripensare criticamente l'istituzione e il ruolo, promuovendo il confronto, decostruendo e ricostruendo il contesto di realtà in cui si opera, a livello personale e collettivo.
A partire dagli anni Settanta, è stato superato il modello di scuola che prevedeva percorsi diversificati per ragazze e ragazzi. Gli indirizzi di studio, le discipline, i contenuti, non sono più differenziati in base al sesso (e al genere “di riferimento”). Anche se sappiamo bene che la pratica non corrisponde sempre alla teoria, la scuola italiana ha vissuto momenti di grande innovazione, volti ad eliminare le disuguaglianze nei percorsi scolastici. Non sto qui a dilungarmi sulla questione della presenza femminile nelle scuole o nelle facoltà tecnico scientifiche e su come questa si articoli in termini di quantità, di qualità, di dislocazione geografica. Ci sarebbe molto da discutere, dati alla mano, sulle pari opportunità, ma questa è un'altra storia.
Restando nell'ambito dell'educazione al genere, non si può prescindere dall'importanza che i movimenti femministi hanno rivestito nell'elaborazione di un pensiero critico i cui effetti si sono estesi ben oltre gli ambiti elitari nei quali si cerca oggi di confinarli. Nello specifico ambito educativo, l'elaborazione della pedagogia della differenza, ha messo in luce come il sapere ammantato di neutralità e universalità svolgesse in primo luogo la funzione di occultare ogni differenza. Differenza di genere, ma non solo.
La pratica del “partire da sé” ha aperto uno spazio alla relazione, al vissuto personale, al corpo, nel processo di apprendimento. Lo sguardo si è spostato sull'esperienza, sulla relazione che si crea fra chi insegna e chi impara, nella quale ognuna e ognuno mette in gioco, suo malgrado, tutto di sé. Assumere il genere come riferimento nel processo educativo ha aperto la strada alla soggettività ed alla molteplicità delle appartenenze. Coltivare la consapevolezza di sé come fulcro della relazione educativa, quindi per chi insegna e per chi apprende, contribuisce a formare gli strumenti critici per interpretare la realtà e vivere secondo i propri desideri.
L'esperienza della realtà è un'esperienza sessuata, come viene messo bene in evidenza dalla lingua italiana che costituisce un elemento di grande ricchezza da usare e sfruttare a scuola. Si può e si deve fare uso del linguaggio sessuato, parlando di donne e di uomini, declinando mestieri, professioni, ruoli, funzioni, abbandonando il neutro indistinto che nasconde diversità spesso irriducibili. Si devono, inoltre, esplicitare sempre i punti di vista, anch'essi sessuati. Quando è il desiderio che ci guida sulla strada della conoscenza, la percorriamo con il corpo, con la mente e con l'emotività.
Negli ultimi decenni hanno fatto la comparsa nei manuali scolastici capitoli o approfondimenti dedicati alle donne, alle “minoranze”, ai “diversi”. Nonostante possano essere qualche volta risultati utili, si sono spesso rivelati piccole deviazioni senza conseguenze. Per quanto riguarda un effettivo ripensamento dell'insegnamento a scuola, rivedere i contenuti appare sempre indispensabile. Lo è ancora di più, tuttavia, assumere una prospettiva di genere (inteso come concetto plurale, non mi stanco di precisarlo), nell'ambito della didattica, delle metodologie, delle modalità di trasmissione del sapere.
Sarebbe interessante, ad esempio, riflettere sull'uso delle tecnologie digitali in relazione agli spazi di socialità che creano, alla formazione di identità e appartenenze, alla relazione con il corpo. Dare spazio a metodologie didattiche “attive”, a strategie che permettano di decostruire l'ovvio, che promuovano l'analisi critica del presente come è accaduto, ad esempio, nell'insegnamento della Storia. Attraverso metodologie laboratoriali, attraverso l'analisi critica delle fonti, sono emerse “le storie”, i corpi sessuati come dispositivi di potere collocati nel tempo e nello spazio, a partire dal punto di vista di chi indaga, cioè dal presente. I gender studies hanno forse determinato una maggiore attenzione verso l'appartenenza di genere (ancora e soprattutto quello femminile), ma, nel valorizzare la differenza, hanno lasciato emergere le contraddizioni di cui erano portatrici altre differenze, quelle dei popoli che sono diventati “minoranze”, ad esempio, o delle donne che hanno elaborato identità di genere a partire da esperienze imprescindibili come quella della schiavitù.
Per concludere,
una volta che abbiamo imparato a considerare il genere come costruzione sociale, possiamo utilizzarlo per de-costruire ciò che ci circonda ma anche come chiave interpretativa per ri-costruire,
perché ciò di cui si tratta, in fondo, è di cambiare il mondo con le nostre idee, per vivere secondo i nostri desideri.
su facebook
Condividi
"Quando suona la campanella" è Copyleft. E' consentita la riproduzione, parziale o totale, dell'opera e la sua diffusione per via telematica a uso personale dei lettori, purché non a scopo commerciale e citandone la fonte.