LOCALE-GLOBALE: due libri per un uso scolastico consapevole della Giornata della memoria

 

di Gianluca Gabrielli

 

 

Sono quindici anni che in Italia si commemora il 27 gennaio, Giornata della memoria. La ricorrenza catalizza l'attenzione dei media e all'avvicinarsi della data assistiamo ad un vortice di comunicazione di livelli disparati; in questo vortice le occasioni per una reale crescita del sapere e della conoscenza storica spesso sono sommerse da una sequela di interventi retorici e superficiali. La forza storica del processo di annientamento degli ebrei d'Europa, dei cosiddetti “zingari”, degli oppositori politici, ... - insomma: l'universo concentrazionario e ciò che ha rappresentato per la storia mondiale - genera ritualità non sempre dignitose. La frenesia di produrre discorsi pubblici a cadenza annuale spesso produce l'effetto della stereotipizzazione dei contenuti e la loro semplificazione in funzione di un rapido “consumo”.

 

Anche l'influenza sulla scuola è potente. Chi insegna - in questo periodo - sperimenta una motivazione inedita delle studentesse e degli studenti che difficilmente trova paragoni in altri argomenti, anche se spesso queste richieste di conoscenza vengono espresse secondo i riti e le forme dettate dal mondo del giornalismo e delle celebrazioni. Perciò è fondamentale che la scuola colga l'occasione offerta, ma nello stesso tempo non può imboccare scorciatoie. Non si può cioè rinunciare al pur difficilissimo compito di mantenere collegata la memoria al contesto della storia - del breve e del lungo periodo - che ha reso possibile la Shoah nella sua complessità e nelle sue molteplici dimensioni problematiche.

Così, dall'immensa bibliografia sul tema, ho pensato di segnalare due letture che mi paiono propedeutiche ad una trattazione consapevole in classe (scuole secondarie).

 

La violenza nazista. Una genealogia, di Enzo Traverso, ha ormai tredici anni, ma - a mio parere - rimane il tentativo più articolato di osservare la Shoah allargando il punto di vista problematico per abbracciare l'intera violenza nazista. L'oggetto della domanda e della riflessione storiografica quindi diviene più ampio e allo stesso tempo mantiene al centro dell'interrogativo la Shoah stessa. A partire da questa esigenza lo studioso ha tentato di ricostruire una genealogia del fenomeno concentrazionario risalendo nel tempo e battendo alcune cruciali, essenziali linee di sviluppo della storia contemporanea, considerando «la singolarità del nazionalsocialismo […] non nella sua opposizione all'Occidente ma nella sua capacità di trovare una sintesi tra le diverse forme della violenza moderna».

Sono molte le linee di “ancoraggio profondo” della violenza nazista che sono considerate da Traverso come antecedenti significativi per comprendere la Shoah. La modernizzazione e la serializzazione dei dispositivi di messa a morte tra la Rivoluzione industriale e la Prima guerra mondiale si riflettono nello sviluppo di una burocrazia militare e civile capace di parcellizzare i compiti e razionalizzarne l'esecuzione a prescindere dai fini. La complessa costruzione del razzismo e dell'antisemitismo di fine Ottocento viene analizzata tra l' ideologia Völkisch, l'eugenetica e il razzismo di classe. Ma con i lager ha a ché fare anche la storia del disciplinamento dei corpi tra la diffusione della fabbrica e l'evoluzione dei sistemi di detenzione e di punizione. E non si può tralasciare l'importanza delle pratiche sterminatrici introdotte dall'imperialismo, così come l'effetto dell'irruzione della “guerra totale” nel primo conflitto mondiale e la comparsa dell'antibolscevismo in connessione all'antisemitismo. Insomma, lo sguardo genealogico che Traverso applica alla Shoah ci permette di estrarre dalla densità drammatica della violenza nazista i nuclei materiali e ideologici della modernità che, in sintesi singolare, l’hanno prodotta, ma che entrano con forza su molti altri percorsi di sviluppo nel mondo contemporanei, primo tra tutti quello dell'imperialismo. Nuclei materiali e ideologici che non si sono dissolti per incanto nel 1945.

 

Ma se Traverso ci ammonisce che l'ottica con cui guardare al genocidio deve essere globale, non possiamo tuttavia ignorare che la sua realizzazione si attua localmente, con un'importante articolazione nazionale che i media mainstream hanno sempre cercato di cancellare o rimuovere. Centrato su questa seconda dimensione, è uscito circa un anno fa I carnefici italiani di Simon Levis Sullam. L'autore, forte delle ricerche più aggiornate, ripercorre le vicende della persecuzione durante la Repubblica Sociale concentrandosi sull'azione degli italiani. “Anche gli italiani - scrive nell'introduzione - presero l'iniziativa, al centro e alla periferia del rinato Stato fascista, partecipando al progetto e al processo di annientamento degli ebrei, con decisioni, accordi, atti, che li resero attori e complici”. Non solo chi compì gli arresti, ma anche chi compilò la lista delle vittime, chi sequestrò i beni e chi se li spartì, chi si fece delatore e chi guidò il vaporetto o la corriera o il treno che trasferiva i prigionieri, chi stette a guardare e chi volse lo sguardo altrove. Responsabilità differenti, che Levis Sullam ricostruisce minuziosamente seguendo i percorsi delle vittime e le azioni dei carnefici italiani, quelli zelanti e quelli riluttanti o indifferenti.

In alcuni passaggi il racconto e la riflessione si fanno particolari in un'ottica umana e didattica. Emerge lo storico che palesa i limiti delle fonti, che confessa al lettore le domande cui non può dare risposta perché non è lecito oltrepassare il documento: quei bambini veneziani che furono trasportati al campo di Fossoli solo in gennaio 1944 “erano ammalati? Erano rimasti nelle mani di qualcuno che aveva tentato di salvarli? Non lo sappiamo”. Poco pagine prima altri documenti lo inchiodano ai fatti e non gli permettono di risalire ai moventi, ai pensieri che accompagnarono i carnefici nelle loro azioni. L'autore sembra non darsene pace, non rassegnarsi: così formula le domande inevase, i dubbi a cui lo storico non può dare risposta, ma che non cessano di risuonare nella sua mente: “Che cosa sarà successo quella sera nelle case dei poliziotti, dei carabinieri e dei fascisti prima degli arresti?”. Per chi insegna è preziosa questa trasparenza del lavoro storiografico, questo spingersi dello studioso ai confini tra il documento e i pensieri verosimili degli attori. Sono passaggi che aprono al lettore il campo del confronto delle ipotesi, delle riflessioni; invitano all'interdisciplinarità possibile tra storia e letteratura, senza cancellarne i confini.

 

Per la scuola primaria invece il discorso si fa oggettivamente difficile. Ormai è una decina di anni che la storia moderna e contemporanea è stata cassata da questo grado scolastico obbligando maestri e allievi ad occuparsi curricolarmente solo della storia antica. In questo scenario la trattazione della Shoah non può che trasformarsi in una parentesi edificante staccata dal contesto storico nel quale si è prodotta.

 

Credo allora sia meglio aspettare la terza media e intanto lavorare sull'argomento in maniera indiretta. Perché non approfittare del 27 gennaio per parlare del razzismo contemporaneo e delle sue manifestazioni quotidiane? La materia di certo non ci manca. Oppure giocare a riprodurre e comprendere le tecniche degli artisti che Hitler bandì come “degenerati”. O ancora aprire un percorso di approfondimento sulle religioni in un'ottica comparativa e non gerarchizzante (ovviamente fuori dallo spazio del catechismo cattolico). O piuttosto far raccontare ai bambini e alle bambine ciò che conoscono della Shoah, provando a riorganizzare - per quanto possibile - il caos di pseudo-informazioni che perviene loro dal mondo dei media. Insomma: fare comunque un percorso, anche minimo, che però possa portare ad un apprendimento pieno, organico, che in futuro possa essere utilmente ripescato dalla memoria per dare forza alla comprensione del genocidio. Eviterei invece di lanciarsi in digressioni solamente in ossequio alla ricorrenza: è troppo forte il rischio di lasciarle campate in aria e di ritrovarsi ad aver operato solamente per mettere a posto la propria coscienza.