IL PROGETTO DI TEATRO SCOLASTICO

di Gianluca Gabrielli

 

 

Anni fa, quando mi trasferii a Trieste, fui assegnato ad una prima elementare a tempo pieno, area linguistica. Nella scuola si riproponeva ogni anno un progetto di teatro che coinvolgeva molte classi, considerato un fiore all'occhiello dell'istituto. Senza pensarci due volte diedi l'adesione della classe, pensando alla tradizione del teatro a scuola, soprattutto alle esperienze degli anni settanta: creatività, presa di coscienza della propria dimensione corporea, libera espressività. Fin dalle prime lezioni però mi dovetti rendere conto che l'attività si andava realizzando in modalità molto diverse da come avevo immaginato. Un'unica esperta esterna elaborava una storia e una coreografia e quindi le riversava sulle 6-7 classi che aderivano, sottoponendo i bambini ad un tour de force intenso per imparare i movimenti e le battute assegnate; l'esercizio coinvolgeva tutte le classi contemporaneamente, con l'esperta a dirigere e gli insegnanti delle classi impegnati in una continua lotta per ottenere da alcuni bambini silenzio e immobilità e da altri concentrazione ed esecuzioni accurate.

 

Non era questo il teatro che avevo immaginato per i bambini della mia classe prima, un'attività di questo tipo mi pareva inutile o dannosa. I bambini divenivano unicamente esecutori di qualcosa che non avevano contribuito a pensare; la fase creativa era completamente assente, a partire dall'impianto generale fino ai minimi dettagli; non esisteva nessuna possibilità e né era previsto alcun momento dedicato a discutere ed eventualmente modificare insieme ciò che si stava facendo; i corpi divenivano strumenti di qualcosa di esterno senza passare attraverso una condivisione della scelta. Dopo le prime lezioni ricordo che ero molto combattuto tra il desiderio di ritirare la classe da questa attività e il timore di deludere le aspettative dei genitori e di pormi subito in contrasto con le nuove colleghe.

 

Poi però subentrò un altro elemento che non mi aspettavo e che mi diede una mano a decidere: rimasi stupito dal piacere che provavano i bambini per questa pratica di teatro addestrativo, questa constatazione faticosa mi spiazzò. Ricordo che rimasi deluso; mi dispiaceva, perché avrei voluto che i bambini fossero capaci di esercitare un senso critico che evidentemente non potevano avere. Il nuovo elemento però mi spinse lentamente a ripensare le aspettative personali in maniera più critica. L'attesa impaziente dei bambini per l'attività di teatro mi costrinse ad ammettere che mi stavo immaginando quei bambini secondo parametri riferiti a me stesso, ai miei desideri, e che al contrario avevo il dovere di osservarli nella loro concretezza, conoscerli per come erano.

 

Così mi imposi una pausa. Quelle esercitazioni di teatro che io guardavo con imbarazzo perché tutte finalizzate alla rappresentazione finale dovevano diventare un momento a mia disposizione per esercitare uno sguardo curioso, per raccogliere dati, per farmi antropologo di quella infanzia che mi era stata affidata, senza avere fretta di imporre le mie teorizzazioni. Decisi di prendere tempo e di mantenere la classe nel progetto. Ricordo che l'unica punto fermo che mi imposi fu la tutela dei bambini più chiassosi o che facevano più fatica a rispondere alle richieste di questa “esperta” regista: avrei difeso dalle sgridate eccessive i bimbi che non capivano le consegne, o quelli che non riuscivano a garantire abbastanza silenzio. Per il resto li avrei osservati mentre si cimentavano in quello strano apprendistato come comparse di un colossal teatrale da 200 mini attori.

 

Fu una interessantissima esperienza. Da una parte scoprivo utili informazioni sulle loro personalità: compagni preferiti, profili sociali, capacità di attenzione e ascolto... Dall'altra però dovetti accettare il fatto che per loro quel momento era bello. Man mano che la preparazione dello spettacolo procedeva, vedevo che aspettavano con piacere di andare ad esercitarsi, ne erano contenti. La prima risposta che mi diedi, che considero ancora in parte vera, era che qualsiasi proposta che arriva ai bambini da adulti fidati in un'istituzione codificata e riconosciuta come la scuola finisce per apparire giusta, doverosa e bella. E' molto difficile che la differente qualità delle proposte didattiche emerga nel giudizio dei bambini, che giustamente si impegnano a fare bene in questa pratica sociale che costituisce il fulcro della loro vita pubblica e che quindi, a meno di particolari angosce, apprendono ad amare. Ma c'era anche dell'altro.

 

In quegli spazi angusti in cui venivano riunite quattro o più classi mi accorsi che era possibile, nonostante la ferrea disciplina che regnava, incontrare amici di altre classi, coetanei e più grandi, e comunicare con loro, magari anche semplicemente sorridendosi da una parte all'altra della grande sala. Questo essere trattati da piccoli ingranaggi di una grande macchina teatrale non creava su tutti l'impressione negativa che vivevo io, piuttosto alcuni si rilassavano, si deresponsabilizzano un po' trovandosi a seguire il lavoro ma senza doverne rispondere personalmente, immersi in un grande gruppo e quindi anonimi; in fin dei conti anche le sgridate che partivano regolarmente dalla regista o dagli insegnanti non erano percepite come angoscianti perché non riuscivano a colpirli in quanto individui: si abbattevano su quel loro omonimo o omonima che esteriormente partecipava all'esercitazione, ma nell'intimo forse neppure giungevano e comunque erano velocemente smaltite. Inoltre c'era la ricchezza di occasioni, relazioni e mini accadimenti che si producono nei momenti di passaggio: l'uscita dalla classe, l'arrivo nel salone incrociando i bambini delle altre classi, l'osservazione delle bambine e dei bambini più grandi che esercitano sempre un fascino enorme, lo scambio dei saluti da una fila all'altra nonostante i dictat del silenzio. Dovetti prendere atto di questo. Non tanto rinunciare alle mie riflessioni iniziali – che avrebbero poi guidato le scelte diverse degli anni successivi rispetto al progetto di teatro – ma rendermi conto ed accettare che la mia ansia di farli agire in situazioni creative, sempre consapevoli, che li chiamasse in causa anche nelle loro scelte e pensieri, era soprattutto un bisogno mio, e che loro vivevano anche il piacere dell'anonimato, dell'assenza di responsabilità individuali, della distrazione pacifica, dell'essere bambini. Dovevo temperare quella mia ansia e trasformarla in obiettivo, a lungo termine, senza privarli dei loro piaceri.

 

Avevo capito che in fin dei conti anche in me esisteva una parte di quel furore realizzativo dell'esperta di teatro; lei mirava alla magnificenza della coreografia, io al coinvolgimento consapevole e alla crescita individuale di ogni bambino e bambina. Nel perseguire il mio obiettivo non potevo però non tenere conto di loro, dei bambini, della fatica nell'impegno responsabile e del piacere nel rilassamento anonimo, che ha diritto ad avere i suoi spazi e i suoi tempi anche nella scuola. Da allora avrei dovuto negoziare un compromesso tra i miei ideali, le mie ansie, i miei obiettivi, e il sentire dei miei scolari. Dovevo dargli tempo.

 

Chi insegnava in passato poteva – anzi doveva – non ascoltare i bambini; oggi non è più così. Sono popoli senza voce, oppure possono avere la voce dei sottomessi e dei plagiati dalla società, e sono ricchi di interessi che divergono da quelli di noi adulti e che quindi spesso fatichiamo riconoscere e ad apprezzare. Ma proprio per questo chi insegna deve rispettare i loro pensieri, cercare di ascoltarli anche quando di primo acchito sembrano cedere al senso comune, al pregiudizio, al qualunquismo, alle paure, alla ricerca del divertimento. Insegnare non significa assecondarli, né sgridarli, né abbandonarli, ma farli entrare in un circolo di comunicazione, dialettico, forte anche del ruolo privilegiato che ricopriamo da adulti insegnanti, stando attenti a non usare questo ruolo per imporre le nostre verità. Avere la forza e la pazienza di negoziare con loro le nostre utopie.