LIBRI DI TRAVERSO
Etienne de La Boétie DISCORSO DELLA SERVITU' VOLONTARIA
di Silvia Di Fresco
«Decidetevi a non servire più, ed eccovi liberi.»
Étienne de La Boétie, Discorso della servitù volontaria, Feltrinelli, Mi, 2020.
Il lunedì pomeriggio, in sede Cobas a Bologna, il telefono squilla spesso e spesso, all’altro capo del filo, c’è una persona che, con la voce alterata, lamenta che il suo dirigente non le ha concesso un permesso per motivi personali perché aveva da ridire sulla motivazione, che la Dsga l’ha trattata malamente perché ha chiesto notizie su un pagamento non ancora evaso, che tal collega della dirigenza le ha mangiato la faccia perché un genitore si era lamentato di un voto basso dato al figlio. Quando, cercando di aiutare chi ha chiamato, rispondo di non preoccuparsi, che può contattare la RSU o venire in sede per far valere i propri diritti, che possiamo fare una messa in mora o che a scuola vale solo quello che è scritto, di solito la concitazione della voce lascia spazio all’esitazione e la rabbia viene inghiottita dalla paura.
Forse è per questo che, passeggiando tra gli scaffali di una libreria, mi è caduto l’occhio su questo titolo di cui, confesso, non avevo mai sentito parlare. Pur trovando la copertina, con l’immagine rielaborata di Guy Fawkes, un po’ troppo ammiccante, quel binomio di servitù e di volontarietà mi risuonava. In effetti chi cerca di fare sentire la propria voce nelle piazze e nei Collegi Docenti spesso, e non senza frustrazione, si chiede: perché siamo così pochɘ? perché dicono sempre sì anche quando non va a loro vantaggio? perché non si ribellano invece di lamentarsi e basta? E così, invogliata anche dall’edizione economica, ho acquistato questo piccolo tascabile di una quarantina di pagine (escluse prefazione e postazioni) e ho iniziato a leggerlo. La prima cosa che mi ha stupito è stata scoprire che l’autore è dell’inizio del XVI secolo e che, quando l’ha scritto, aveva una ventina d’anni; ho avuto la medesima reazione delle mie classi quando racconto loro che qualche letterato del passato faceva uso di droghe: ma come, esistevano già? Allo stesso modo mi è sembrato incredibile che allora, in un’epoca in cui ci si iniziava a interrogare sulle varie forme di dominio (Il Principe di Machiavelli) e su altre forme di convivenza possibile (L’Utopia di More) ci sia stato qualcuno che abbia posto l’accento su chi è assoggettato considerandolo non come essere passivo che va liberato, bensì come agente della propria libertà.
Il Discorso di La Boétie parte da un interrogativo: «Per ora vorrei invece soltanto capire come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città, tante nazioni, a volte sopportino un solo tiranno, che non ha altra potenza se non quella che essi gli concedono.» [1] Non è un interrogativo da poco e alla fine, con tutti i distinguo del caso, non è nemmeno così distante da quello da cui la mia mano era partita afferrando questo libro. La scrittura, ricca di esempi storici e di aneddoti, poggia spesso su esclamazioni e domande che solo all’apparenza sono retoriche visto che – dopo ognuna – ci si sente interrogare personalmente e si cercano le risposte nel prosieguo del testo. Invano. [2] Certo, l’autore avanza delle ipotesi, ci dice persino che «la prima ragione della servitù volontaria è l’abitudine», [3] ma non si accontenta, non gli basta, non gli sembra una ragione sufficiente, così come non lo è la violenza o la minaccia di essa, perché chi detiene il potere è sempre e comunque in minoranza rispetto al popolo. «Chi vi domina in tal misura ha soltanto due occhi, ha soltanto due mani, ha soltanto un corpo, e non ha nulla in più dell’ultimo uomo del grande e infinito numero delle vostre città, tranne il privilegio che voi gli concedete per distruggervi.» [4] Qualche pagina più avanti, non a caso, racconta poi di come Ciro e Nerone, usando attività ludiche e lubriche, riuscirono a dominare popolazioni prima libere («Così i popoli instupiditi, trovando belli questi passatempi, divertendosi con il vano piacere che gli balenava davanti agli occhi, si abituavano a servire […]»), [5] mettendo in guardia, al contempo, anche da chi commette crimini preceduti da qualche «bel discorso sul bene comune e sulla pubblica utilità»[6]. Della serie non fatevi instupidire da chi vi circuisce con premi e delizie, ma nemmeno da chi utilizza parole a voi affini, perché dietro – alla fine – c’è sempre, come rinculo, una servitù da rendere. Penso adesso sia a quegli incarichi e a quei progetti distribuiti in modo da favorire economicamente un certo numero di persone, sia ai tanti acronimi e ai tanti inglesismi utilizzati per indorare l’aziendalizzazione della Scuola Pubblica: RAV, performances, skill, target, milestone, etc.
«Per tornare invece al punto in cui, non so come, avevo perso il filo del mio discorso […] sono sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno […]; ci sono sempre stati cinque o sei a cui il tiranno prestava ascolto, perché si erano fatti avanti da sé, o perché era stato lui a chiamarli […]: come si usa dire, per spaccare la legna ci vogliono pur sempre dei cunei dello stesso legno» [7]. Ecco qui apparire in modo chiaro, con diversi secoli di anticipo, la figura del neonato staff del dirigente, in cui talvolta vediamo entrare persone insospettabili, apparentemente miti e affatto attratte dal potere. Perché costoro si prestano? Forse perché, oltre al compenso economico, ambiscono al riconoscimento sociale del proprio lavoro? O forse perché - parafrasando Orwell - siamo tutti uguali ma qualcuno è più uguale degli altri? La ragione che sembra farci intendere La Boétie a tal proposito è amaramente semplice: l’essere umano porta in sé una contraddizione, è attratto sì dalla libertà, ma in parte anche dalla servitù e dai suoi premi, altrimenti non si spiegherebbe lo stato di servaggio in cui vive. «Quale pena, quale martirio è mai questo, o buon Dio? Giorno e notte cercando di piacere a qualcuno che si teme più di qualsiasi uomo al mondo; con gli occhi sempre aperti, le orecchie sempre tese, per intuire da dove verrà il colpo […]; sempre con il sorriso sul volto e il gelo nel cuore; non poter essere felice, e non osare essere triste!»[8]
Non vi sono soluzioni né assoluzioni, c’è solo un principio che l’autore pone come antidoto alla servitù e che ricorre, a vario titolo, in questo piccolo saggio: «se [la Natura] ha mostrato in ogni cosa che non voleva tanto farci uniti, ma tutti unici [tous uns], allora non vi è dubbio che noi siamo tutti naturalmente liberi, perché siamo tutti compagni; e a nessuno può saltare in mente che la natura abbia posto qualcuno in servitù, avendoci posti tutti in compagnia.» [9]
Purtroppo, per quanto sia vero, nel nostro mondo, dove gli individui si sentono sempre più soli, dove il detto “l’unione fa la forza” è stato sostituito dal “chi fa da sé fa per tre” o dal “va avanti tu che a me mi vien da ridere”, si fa fatica a credere o a sperare che la “social catena” emani ancora la propria forza. E chi vive a scuola ne ha un esempio plastico ogniqualvolta gli Organi Collegiali vengono sviliti (magari sostituendo i Collegi Docenti veri e propri con corsi di formazione), o addirittura mal sopportati, come quando si richiede di farli on line così si può anche non ascoltare. Ciononostante, o forse proprio per questo, vale la pena immergersi nel testo di La Boétie e, allo stesso modo, nelle due postfazioni di Benasayag e di Abensour, perché «il Discorso mette alla prova il desiderio di libertà del lettore, di ciascuno dei tous uns. Come se la ricerca della libertà si rafforzasse nella capacità di sfuggire alle trappole disseminate nelle sue pagine e al desiderio di servitù che esse nascondono» [10].
[1] p.30
[2] Ad esempio: «A che scopo racconto tutto questo? Non reputo certo che il paese e l’ambiente spieghino tutto, poiché in ogni contrada e sotto ogni cielo la sottomissione risulta amara ed è un piacere essere liberi;[…].» p. 47
[3] p.48
[4] p. 36
[5] p. 53
[6] p.55.
[7] pp. 59-61
[8] p. 67
[9] P. 39
[10] M. Abensour, Del buon uso dell’ipotesi della servitù volontaria, Ibidem, p. 124
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