LA SCALATA DELLA  SCUOLA

A volte credi di salire, ma in realtà stai scendendo

Prima parte

di Susanna Caputo

 

Sette e trenta, prima campanella. Dopo anni di supplenze brevi, semi-lunghe, a volte riconfermate, a volte interrotte dall’arrivo dell’avente diritto – il nemico in agguato dell’insegnante non abilitato – finalmente entro in una scuola a pieno titolo. Non proprio di ruolo, ma abilitata e con tanto di supplenza annuale conquistata al tavolone, la meta del pellegrinaggio settembrino del precario nell’era pre Covid. Passo deciso, testa alta e piglio sicuro. Fino al 30 giugno ho una mia collocazione. Sono precaria, sì, ma mi sento a una svolta. L’oggetto di tutta questa esaltazione è un incarico annuale in un ITIS di montagna raggiungibile in treno previa una micidiale alzataccia in piena notte con arrivo in loco in tempo per vedere l’alba tra i monti. Romantico, non c’è che dire.

Nei giorni precedenti avevo già familiarizzato con la scuola che in realtà è un polo con più indirizzi: professionale, tecnico e licei vari. Avevo conosciuto qualche collega, perlopiù del tecnico, che mi aveva illustrato le “meraviglie” che mi aspettavano: studenti (poche le ragazze, anzi pochissime) motivati, intelligenti, desiderosi del nostro sapere. Forse non tanto preparati in inglese (la mia disciplina), ma io sicuramente avrei impresso in loro il desiderio di familiarizzare con la lingua di Albione. E così, con queste premesse, finalmente entro in classe.

Davanti a me ci sono una quindicina di adolescenti che mi guardano, anzi mi esaminano, cercando il punto debole in cui colpire. Ai miei goffi tentativi di imbastire una conversazione amichevole reagiscono con malcelata indifferenza. Ascoltano annoiati una tizia che tenta di apparire interessante, ma lo è come un documentario sulla transumanza, che ripete la solita solfa del “sarà un viaggio che faremo insieme”. Però sono educati, non mi sbeffeggiano. Campanella, cambio classe: solito copione. Campanella, intervallo: collega gioviale che ti offre il caffè alla macchinetta e orgoglioso dei suoi pupilli ti chiede se tutto è ok. Campanella, solito ballo e arriva l’ora di uscita. Passa la prima settimana e lo scenario cambia improvvisamente.

Il gruppetto di adolescenti che educatamente ascoltava annoiato si trasforma in una gang  della banlieue parigina ostile e urlante che tenta di abbattermi in tutti i sensi. I colleghi non sono più tanto serafici, ma cominci a sentire lo loro grida attraverso i muri e, man mano che passano i giorni, durante l’intervallo sono sempre più di fretta, più accigliati e non ti offrono più il caffè. E’ chiaro che devo fare qualcosa: me la sono sempre cavata e dopo tutto ora sono un’insegnante abilitata!

Campanella, entro in classe con passo più che deciso. Bene cominciamo a mettere le cose in chiaro: qui le regole le faccio io e voi dovete rispettarle. Più facile a dirsi che a farsi, ma l’importante è crederci. Comincia così un duro lavoro di resilienza e resistenza. Dire che non sono tanto preparati in inglese è un eufemismo, qui la lingua che unisce il mondo è osteggiata che manco durante il Ventennio. E prima che la grammatica inglese qui serve un’alfabetizzazione emotiva. Inizia un dialogo in cui cerco di capire chi sono questi ragazzi che vedo tutte le mattine, ascolto le loro storie, chiedo cosa fanno quando non sono a scuola, cosa piace loro. Non sono più la solita prof. che vuole fare la simpatica, ma comincio a diventare una strana soggetta che è più interessata a come passano il sabato sera che al present perfect. E intanto comincio a guardare l’ambiente che mi circonda con più attenzione.

La prima cosa che noto è che, nonostante si tratti di un istituto di grandezza media c’è una netta divisione tra il tecnico e i licei (il professionale sembra un’isola a parte) divisi fisicamente da una porta antincendio che separa la parte dell’edificio più recente e con pochissimi docenti in condivisione. Dovendo fare un viaggio quotidiano piuttosto lungo con molti e molte docenti pendolari si familiarizza. Scopro così che c’è un gruppetto di precarie e precari che tornano in quella scuola da diversi anni e che altri sono lì come me per la prima volta. In comune abbiamo tutti e tutte il fatto di avere un punteggio di graduatoria che non consente molte altre scelte. Però metto a fuoco che i precari più “anziani” spesso hanno un passato all’ITIS, mollato quando la posizione è migliorata. Ne deduco quindi che ci sia una sorta di gerarchia: il gradino più basso è il tecnico poi, chi può sale verso il liceo. Niente di nuovo: succede anche negli altri poli scolastici, ma perché? Se faccio l’insegnante, non è importante dove, ma come insegno. E poi, nel terzo millennio ancora con la scuola di classe? E Don Milani, Freire, Lodi, Montessori e tutto il pantheon su cui mi sono formata, dov’è finito?

Inizia quindi una riflessione più profonda su due binari paralleli. Il primo riguarda gli studenti che sicuramente percepiscono questa sorta di divisione di classe. Che non è una divisione tra loro, infatti liceali e tecnici si frequentano, si innamorano, litigano tra loro come sempre è stato. La famosa porta li divide solo durante le lezioni (questo l’ho appreso dai miei ragazzi tra un verbo modale e un simple past). Si sentono merce scadente per il mondo degli adulti e questo sentimento lo sfogano rendendo la vita dura a chi va in classe. Conquistare la loro fiducia non è facile, non li puoi ingannare, devi esserci, farti stimare, devi meritartela, devi lottare con loro e per loro. Non bastano poche parole di presentazione lusinghiere alla nuova arrivata il primo giorno di scuola. Devi crederci tu per prima che ce la possono fare. Ma non crederci per finta, per davvero.

Il secondo binario riguarda invece noi, la classe docente. La scuola non è un’azienda, non si fa carriera, non ci sono ruoli apicali (dirigente scolastico escluso). Lo stipendio si alza per anzianità di servizio non se insegni al professionale o al liceo classico. Il titolo di accesso per l’insegnamento è la laurea qualunque sia la disciplina che insegni. Allora dov’è la trappola? La trappola è proprio questa. Il sistema ha creato una sorta di “organigramma fantasma” a costo zero. Non solo, è riuscito a mantenere un impianto decisamente classista anche dopo la rivoluzione del Sessantotto, i tumulti del Settantassette, la scuola obbligatoria fino a sedici anni e tutto il resto. Come? Semplice ha indotto nei docenti e nelle docenti la convinzione che se vuoi migliorare la tua vita professionale devi scalare la gerarchia degli ordini scolastici. Al professionale approdi subito, poi, con pazienza, tempo e, soprattutto, punti in graduatoria miri in alto verso la cima: liceo scientifico e liceo classico! Stesso stipendio, stesse mansioni, stesso contratto, ma vuoi mettere il prestigio.

E così, dopo queste riflessioni sono tornata dai miei studenti, con orgoglio e indomita passione (dopo tutto sono una ex-settantasettina) e ho cominciato un lavoro intenso, a tratti duro, ma che mi ha insegnato molto del mestiere e che ha riempito la mia cassetta degli attrezzi. I miei ragazzacci, mi hanno accompagnato per diversi anni. Di loro sono orgogliosa, alcuni ancora li incontro con grande piacere reciproco. Poi, anch’io, ho cominciato la scalata.

(continua)