LA SCALATA DELLA  SCUOLA

A volte credi di salire, ma in realtà stai scendendo

Seconda parte

di Susanna Caputo

 

Correva l’anno 2015 e il mondo della scuola, o meglio quello dei precari della scuola, era in fibrillazione. No, non come al solito, questa volta stava accadendo qualcosa di stupefacente: era arrivata la Buona Scuola di Renzi! Una “grandiosa riforma”, voluta dal più pirotecnico primo ministro che l’Italia repubblicana abbia mai avuto. Il “grande mago” aveva concepito un meccanismo che avrebbe stabilizzato orde di precari e precarie e quindi svuotato le GAE, le mitiche graduatorie ad esaurimento che però non si esaurivano mai. Tutti contenti, quindi. Beh, non proprio. La fregatura c’era, ed era bella grossa. La riforma prevedeva la stabilizzazione attraverso grossi gradoni: il primo, la cosiddetta fase A, premiava i piani alti della graduatoria e, in piena estate, diede il ruolo a un gruppo di fortunati/e che ebbero la possibilità di scegliere una scuola secondo le solite regole. E tutti gli altri? Per un altro gruppo, che poi si rivelò esiguo, la fanfara suonò in piena notte a settembre annunciando una sede di servizio lontana dalla propria abitazione, una bazza come diciamo a Bologna. Per tutti gli altri, la plebe, c’era l’attesa della fase C, quella del potenziamento. Una novità assoluta, cattedre senza classi, ore da riempire con non si sapeva bene cosa: chi diceva sostituzioni, chi prevedeva recuperi pomeridiani, chi terrorizzava  lo spauracchio di progetti vari. La realtà era che nessuno aveva la minima idea di quando sarebbe entrato in ruolo, né di dove, visto che ci avevano obbligato a fare una graduatoria di preferenza con tutte le provincie di Italia (come se facesse la differenza mettere prima Catanzaro di Foggia se abiti a Bologna) e, soprattutto, non era chiaro cosa avremmo dovuto fare noi docenti del potenziatoIl sistema, a cui piacciono le gerarchie, aveva creato la più grande discriminazione del corpo docente. Le schiere alte avevano le loro classi e insegnavano, tutto il resto ancora precario e nello sconforto più totale. Ciò che univa tutte le truppe era, come sempre, lo stipendio, qui niente di nuovo, basso per tutti. Con queste premesse andai al tavolone anche quell’anno.

 

Oramai l’eccitazione della prima volta, di cui già ho parlato, aveva lasciato il posto a un crescente disincanto che quell’anno si fece ancora più amaro. Meno persone del solito, meno cattedre disponibili. Tuttavia, all’avvicinarsi del mio turno, il desiderio di una piccola, personale rivincita cominciò a serpeggiare dentro di me. La cattedra del liceo del mio polo scolastico resisteva, nessuno la prendeva. E come una sirena cominciò ad ammaliarmi con il suo canto. Cercavo di scacciare la tentazione, pensavo ai miei meccanici, ai miei informatici che mi avevano riempito di soddisfazione per tanti anni, non potevo tradirli. Arrivò il mio turno, mi avvicinai al tavolo e fu più forte di me: cedetti alla tentazione e scelsi il LICEO! Non ero entrata di ruolo, ma sarei stata una prof. del liceo. Che consolazione. Quello che non potevo sapere era che la montagna che volevo scalare era in realtà una parete di sesto grado.

 

Il mio ingresso al liceo non fu affatto trionfale, il mondo dell’ITIS mi guardava come avessi commesso alto tradimento, avessi abiurato una fede o fossi colpevole di abbandono di incapace. Quello del liceo non fu da meno. Niente tappeti rossi, un malcelato stupore misto a un vago senso di fastidio. La stessa domanda ripetuta all’infinito: come mai questo cambio? Sentivo su di me uno sguardo non proprio benevolo. E presto avrei scoperto che ero solo alla base della salita.

 

Nel variegato panorama dei licei italiani esiste una classifica mai esplicitata, ma ben definita. Alla base della piramide c’è il LES, l’economico-sociale, che chi ci lavora chiama pomposamente il liceo della contemporaneità per via delle discipline caratterizzanti: un fritto misto di economia, sociologia, psicologia e antropologia snocciolate in poche ore settimanali. Appena un po’ più su ci sono le scienze umane, che hanno preso il posto delle vecchie magistrali. Poi il linguistico, che si dà un tono di internazionalità ed è la meta di chi insegna lingue. Al vertice lo scientifico e il classico, anche se quest’ultimo è il vero puntale dell’albero di Natale. Fuori scala artistico, sportivo e musicale perché riservati a studenti talentuosi, almeno in teoria. Nei miei ingenui sogni ambivo una cattedra al linguistico, nella realtà mi ritrovai 18 ore tra LES e scienze umane. Dovevo fare la gavetta. Ancora.

 

Anche in questo caso non mi scoraggiai, forse avevo perso un po’ di entusiasmo per l’età non più verdissima, ma il trappolone escogitato dal buon Renzi mi aveva fatto venire quella che a Napoli chiamano cazzimma, un misto di furbizia, cinismo e perfidia che aiuta a cavarsela in ogni situazione. Supportata anche dalla fama di “tosta” che mi ero fatta negli anni precedenti, al suono della prima campanella entrai in classe baldanzosa. Prima sorpresa: ero in un mondo ribaltato rispetto a quello che già conoscevo, molte ragazze, pochissimi maschi. Oramai ero scafata e lasciai perdere i convenevoli sul viaggio che avremmo fatto insieme e cercai subito di imbastire una relazione più personale. Sguardi incuriositi, ma non troppo, un po’ di timore causato da racconti esagerati ricevuti dagli amici, poca voglia di ridurre le distanze. Cambio classe, ma non cambia di molto. La svolta arrivò con la prima: erano piccole, venivano dalle medie ed erano piene di paura ed emozione; qui giocai facile. Intervallo. Nessun collega mi offrì il caffè perché qui erano tutti affaccendati a organizzare lezioni e altre cose misteriose e serissime. Passò la prima settimana e arrivò la non più inattesa trasformazione delle classi, ma stavolta ero sul pezzo. Insomma, mica tanto. Di certo non mi aspettavo di trovare una equipe di estetiste al posto di una ciurma urlante e poco propensa alla grammatica inglese. Mentre spiegavo mi resi conto che molte studentesse stavano trafficando con smalti, rossetti e rimmel. E no, non ci siamo proprio. Partì un sequestro di beni (che ancora conservo come ricordo di tempi felici) che neanche la Guardia di Finanza al peggiore degli evasori. Che dire, non mi sembrò molto diverso dal posto che avevo lasciato. Anche qui la lingua di Albione non era il primo degli interessi. Ricominciai il lavoro di relazione che diede buoni e inaspettati risultati. Chi frequenta questi licei si sente un po’ la ruota di scorta, perché la prima classe è altrove, sono quelli del linguistico e dello scientifico. “Loro sono quelli che studiano per davvero, noi siamo quelle un po’ così.” “Così come?” chiesi. Quelle che magari hanno provato a fare il linguistico o lo scientifico, ma le hanno bocciate, quelle che alle medie non erano proprio bravissime, quelle che se “volevo studiare non venivo qui”. Ovviamente, anche in questo caso la scarsa considerazione la sentono arrivare dagli adulti perché tra loro si mescolano benissimo (i maschi dell’ITIS qui fanno furore). Dopo diversi anni di pendolarismo e chiacchiere in treno sono abbastanza consapevole che anche chi insegna in questi licei perlopiù ambisce a quelli più alti, ma in questo caso accedervi non è facile perché quasi sempre quelle cattedre sono destinate a prof. di ruolo o a docenti precari particolarmente apprezzati dai piani alti. Era  comunque opinione diffusa che è meglio qui che nell’inferno del tecnico. Sarà, ma a me sembrava molto simile.

 

Intanto, a novembre, arrivò il tanto atteso ruolo e con esso l’anno di prova. Ritrovai l’antico ardore, ora ero diventata una vera prof, con la P maiuscola anche se dovevo fare i conti con lo stigma della fase C che mi ha accompagnato per diverso tempo. Dovevo dimostrare chi ero, che me lo ero meritato, dovevo stupire con fuochi di artificio. Tirai fuori la mia cassetta degli attrezzi che i ragazzi del tecnico mi avevano aiutato a riempire e, grazie a tutto ciò che avevo imparato da e con loro, cominciai un percorso che è durato anni. Ho portato alle soglie della vita adulta diverse annate di ragazze e anche qualche ragazzo, alcune le ho viste laurearsi con sommo orgoglio. Di altre ho seguito i percorsi da lontano. Poi è arrivato il Covid. E sono cambiate molte cose. E quando se ne è andato, ho deciso di continuare a salire. Anche se a ben vedere, mi sembrava di essere sempre alla stessa altezza…

(continua)