LE PAROLE SONO IMPORTANTI
di Sandro Ciarlariello
Ho vissuto fino a diciotto anni in un piccolo paese del Molise, un paese dove le persone hanno sempre saputo fare due cose importanti: coltivare la terra e costruire case. Io mi sono trovato in una famiglia in cui si facevano entrambe le cose. Infatti, oltre a lavorare la terra dei nonni, sul finire degli anni ottanta del secolo scorso, mio padre di lavoro faceva il muratore. Mi ripete sempre che ha iniziato a lavorare nei cantieri quando aveva quattordici anni, subito dopo aver preso la licenza media. Mi ha confidato più volte che a quattordici anni avrebbe voluto tanto andare a studiare al conservatorio: ma il frammento di spazio-tempo in cui ha espresso questo desiderio era decisamente quello sbagliato. Comunque a causa della decennale esperienza nel campo delle costruzioni di mio padre, qualche volta mi è toccato prendere, controvoglia, parte in riparazioni o interventi casalinghi. Difficile abituarmi all’intonaco e ai mattoni, ma ancora di più era abituarmi al linguaggio da muratore, per giunta modificato in versione dialettale. Del resto a scuola non mi avevano mica insegnato a creare discorsi con le parole betoniera o cazzuola. E, comunque, non le avrei mai scritte bene in un eventuale tema d’italiano, perché le sapevo solo pronunciare in dialetto e non mi era mai saltato in mente di cercarle su un vocabolario. Perché avrei dovuto farlo? Il dizionario era uno strumento da usare durante il tema, no? Tra le tante parole lavorative che mi circondarono durante l’infanzia, una in particolare mi colpiva ogni volta che veniva nominata in dialetto: lu tumbère. Ora “lu” sta per l’articolo “il”, mentre “tumbère” indicava il fondamentale veicolo dotato, nella parte anteriore, di un cassone ribaltabile e usato per il trasporto di materiale (breccia, sabbia o altro) nei cantieri. Quante volte ho visto lu tumbère di un nostro paesano sfrecciare nelle strade lastricate di pavet del mio paese. E quante volte ho sentito il caratteristico rumore in lontananza, prefigurando già sudore e fatica che io ritenevo di dover tenere il più alla larga possibile da me. Dopo aver lasciato il mio paese per vivere altrove, lu tumbère non è stato più nei miei pensieri, neanche per sbaglio. Ma questo fino a qualche anno fa, quando mi trovai a lavorare in una casa editrice che fa libri per la scuola e fui incaricato di gestire la redazione di un libro di tecnica delle costruzioni. Ciò che facevo era supervisionare che le correzioni sulle bozze fossero riportate per bene dallo studio grafico, oltre a sistemare alcune parti delle impaginazioni (foto, didascalie) quando non soddisfacevano i criteri prefissati in termini di margini e stampa. Un giorno, proprio mentre sfogliavo le bozze, mi cadde l’occhio su una foto. Era proprio una foto de lu tumbére! Mi venne da sorridere, ripensai all’infanzia, a mio padre con i secchi di sabbia...che mi incitava a trasportare “veloce, dai, veloce!”. Poi, lessi la didascalia sotto l’immagine: “Dumper all’opera in un cantiere edile”. Rimasi a bocca aperta. In quel momento realizzai che una parola che io avevo creduto per quasi trent’anni essere un termine dialettale, tumbère, era in realtà la storpiatura di un termine anglosassone che si scrive dumper e si pronuncia dampe’, lasciando la erre praticamente non pronunciata. Lo ammetto: fu uno shock. Mi chiesi come mai non avessi mai approfondito questo fatto e mi fossi fidato dell’ancestrale appoggio alla mia lingua dialettale: che fesso! Avevo sempre ritenuto che tumbère fosse una parola dialettale dall’origine insondabile, che si perdeva nella notte dei tempi. E invece. Ci sono state altre parole che mi hanno accompagnato nell’infanzia, decisamente italiane, che non avevano un corrispettivo in dialetto. Per esempio, una parola che mi ha sempre colpito tanto quando andavo ancora alle scuole elementari era cassintegrazione. Me la immaginavo nella mia mente scritta proprio così, tutta attaccata. La pensavo come una parola insopportabilmente lunga, oltre che insopportabile nelle conseguenze. La sentii la prima volta quando mio padre tornò a notte fonda da una specie di assemblea che avevano fatto nella fabbrica in cui lavorava (nel frattempo aveva smesso di fare il muratore). Dal modo in cui la pronunciò a bassa voce a mia madre, mentre origliavo, non mi sembrò presagire nulla di buono. A volte, alcune parole ti danno già una sensazione di negatività, c’è poco da fare. Inutile dire che neanche di questa parola si fece mai menzione a scuola e, lo ammetto colpevolmente, mai mi passò nella testa di chiedere alla maestra. Mi sembrava, ormai, una parola intima, impregnata nelle mura di casa mia e che non aveva alcuna possibilità di essere pronunciata all’esterno. I fatti successivi lo confermarono: mio padre non la pronunciava mai all’aperto, in piazza, quando uscivamo; la pronunciava a casa dei nonni, al massimo, comunque sempre dentro quattro mura. Anni dopo imparai non solo che le parole erano due, cassa integrazione, ma anche a capirne sempre meglio il significato. E ho avuto, dentro me, mozioni contrastanti. Da una parte desideravo con tutto me stesso che quelle parole non esistessero affatto, così che nessuna persona potesse mai sentirle. Dall’altra parte, da quando ho iniziato a prendere coscienza pian piano del mio ruolo sociale di insegnante, preferisco parlarne appena mi è possibile, proprio per evitare che la prima volta in cui vengono ascoltate sia in famiglia, come è accaduto a me. A questo punto mi tornano in mente le parole del libro “L’amica geniale” di Elena Ferrante: “L’autunno volò. Fui interrogata in Eneide, una mattina, era la prima volta che venivo alla cattedra. Il professore, tal Gerace, un uomo sui sessant’anni, svogliato, tutto sbadigli rumorosi, scoppiò a ridere appena pronunciai oracòlo invece di oràcolo. Non gli venne in mente che, pur conoscendo il significato della parola, vivevo in un mondo in cui nessuno aveva mai avuto ragione di usarla. Risero tutti, specialmente Gino, lì al primo banco accanto ad Alfonso. Mi sentii umiliata.” In questo stralcio, la protagonista Lenù racconta di una sua esperienza a scuola negli anni sessanta del secolo scorso. Anche qui una parola, stavolta in un argomento di letteratura, genera una differenza decisiva tra il mondo fuori e dentro la scuola. Un taglio netto, con un accento anziché un’accetta, per separare esperienze di vita che da legittime diventano quasi fuorilegge. Le parole, quindi, celano una diversità di vite, di esperienze, una collettività che non sempre sono quelle che la scuola tenta di imporre. Come nella mia scuola non si è mai parlato di dumper e cassa integrazione, parole che riempivano la piazza del mio paese che circonda la scuola, così Lenù non sa pronunciare bene oracolo perché al di fuori completamente del suo campo di esperienza sociale del rione in cui vive a Napoli. Questo perché chi sceglie le parole, alla fine, è sempre chi insegna. Non succede praticamente mai che noi docenti prendiamo le parole dalle persone che abbiamo in classe: in fondo, correggiamo oracòlo o qualsiasi altro errore senza mai sapere davvero nulla dell’interesse verso quella parola da parte di chi l’ha pronunciata. Ora, io insegno matematica. Mi ritrovo a cercare di far capire, per esempio, come si risolvono le equazioni. Spesso ci viene richiesto, dall’alto, di prendere gli esercizi e adattarli a contesti di vita quotidiana per far capire meglio l’importanza e l’utilità della matematica. Sembra un tentativo di portare la piazza dentro la scuola, ma in realtà è solo un escamotage: non si innesca una riflessione sulla realtà, bensì si aggiunge solo una parvenza di familiarità a concetti che restano comunque ostici e lontani dalla realtà. Addobbare un esercizio sulle equazioni con un contesto che strizza l’occhio allə studenti vuol dire solo rendere più accettabile loro la solita tortura della matematica. Ma lə studente ormai ci ha fatto l’abitudine: legge l’esercizio, si lamenta, impara a scartare le parole superflue. Anche così quindi le parole dellə studenti continuano a restare fuori dalla scuola e diamo importanza solo a quelle che portiamo noi con i nostri maldestri tentativi di farlə studiare. Ma in realtà che cosa stiamo davvero facendo se non “escludere” e “addestrare” a sopportare una società che non ha alcuna intenzione di venire loro incontro? Cosa stiamo facendo se non costringere loro a omologarsi a qualcosa di già deciso altrove, impermeabile alle loro parole, per evitare di diventare reietti della società? A volte mi capita proprio di ascoltare, in sala insegnanti o nei consigli di classe, docenti che dicono che la scuola deve addestrare "alla vita" che già esiste fuori, perché il mondo è difficile, violento, spietato e si teme che qualche studente possa soccombere. Ma chi ha creato questo mondo, noi adulti o lə studenti? E allora anziché accettarlo come inesorabile, non sarebbe meglio alimentare i presupposti per cambiarlo? Invece, la maggior parte delle volte siamo proprio noi docenti a creare una scuola che “addestra” allo status quo, auto-imponendoci regole, vincoli e pratiche che, se solo ci riflettessimo insieme, potremmo serenamente scardinare e ripensare nei collegi docenti e nei consigli di classe. Ci fissiamo con un’impostazione didattica rigida, autoritaria, con i piani delle nostre lezioni e delle nostre attività, con le conoscenze, con le abilità e con le competenze di una disciplina e riusciamo nell’incredibile impresa, per trentatré settimane ogni anno, di non trovare mai né spazio né tempo per accogliere le nuove parole che vengono semplicemente dalle vite di chi condivide con noi ogni giorno l’aula. Forse tutto questo succede perché anche a noi sono state negate le nostre parole quando eravamo giovani, in un continuo atto riproduttivo dello status quo? Chissà. Magari basterebbe noi docenti trovare il tempo e la volontà di iniziare a ripensare non soltanto a come funziona la scuola ma soprattutto a qual è la funzione della scuola per la società. Non chiedersi qual è la migliore metodologia da proporre per far studiare le persone, ma chiedersi per quale motivo le persone devono studiare nella nostra società. Questa riflessione non può che essere collettiva, da fare per forza con lə studenti, e deve partire assolutamente da quelle parole che al momento sono escluse dalla scuola ma fanno parte del vissuto quotidiano dellə studenti e delle loro famiglie. Come nel romanzo Babel-17 di Samuel R. Delany, è il linguaggio che usiamo ogni giorno che definisce i limiti del nostro pensiero e della nostra immaginazione. Se alcune parole restano fuori dalla scuola, si riduce la possibilità di costruire una nuova società che ancora non esiste, auspicabilmente migliore di quella attuale.