LA MISURA DELL'INSEGNANTE
di Michela Di Santo
“Quanto ti definisce essere insegnante? Quanto dice di te?”
Ascolto C. farmi questa domanda e, di pancia, rispondo che no, non mi definisce. Io mi sento altro da quel sistema, non mi sento di appartenervi.
C. procede e continua a incalzarmi con domande che mi trafiggono. Anzi, somigliano più a quei proiettili a espansione: basta un solo punto interrogativo a farmi sanguinare tutta. Nuoto in mezzo a queste vene rosse, mi dimeno tra le carni maciullate e alla fine, travolta dal mio stesso midollo dilaniato, capisco che sì, forse mi definisce. Forse mi sento migliore come persona, se sono una buona insegnante.
Bingo.
Ho sempre ammirato e studiato la figura dell’insegnante che mi si stagliava di fronte al banco. Non mi interessava come fossero vestiti, ma mi interessava cosa dicessero, soprattutto quando non spiegavano. Rivolgevo un’attenzione estrema ai loro gesti, alle modalità di discussione e alla risoluzione dei conflitti.
Io sono sempre stata un’ottima studentessa: studiosa, responsabile, introspettiva, curiosa, educata. Fin troppo, direi, anche quando l’insegnante non si meritava affatto il mio rispetto.
C’è un episodio particolare in cui ho capito quanto fosse importante svolgere bene la professione di insegnante.
I liceo classico, ovvero il 3° anno. La mia vita era uno schifo: problemi familiari, bulimia nervosa, incubi, pensieri intrusivi. Andavo a scuola, ma ero assente. Il rendimento era calato e ne soffrivo. Ma la mia vita era sottosopra e la scuola era l’ultimo dei miei problemi. Ricordo che facevo molte assenze perché spesso capitava che, la mattina, le gambe non rispondessero: non ho i muscoli, pensavo. Bevevo 7 tè al giorno e vomitavo nel cesso di nascosto. Spesso mi ferivo da sola; ricordo che mi faceva stare bene spurgare quel dolore dalla carne, perché arrivare fin dentro il nerbo delle ossa era impossibile.
Stavo di merda e dovevo comunque continuare a sedermi sulla sedia, fissare la lavagna per cinque fottute ore e fingere che studiare avesse importanza.
Un giorno il professore F. mi fermò nel corridoio.
Michela, tutto bene? Hai il viso spento, non sorridi più. Cosa succede?
Tilt. Perché il prof mi parla così? Perché non parla di voti?
Il giorno successivo capitò una seconda volta: era il turno del professor C.
Michela, sei bianchissima. Stai mangiando? Se hai bisogno di parlare, io sono qui. Per l’interrogazione, non ti preoccupare, la recuperi quando starai meglio.
È possibile?
Ricordo che sono tornata a casa e ho pianto. Ho pianto tanto perché finalmente qualcuno si era accorto che stavo sprofondando all’Inferno. Mi avevano vista e mi avevano teso la loro mano. Non erano più in cattedra a riversare saperi, erano con me, a fianco a me, preoccupati per me.
C. e F. sono professori che ricordo con tanto amore.
C’è un altro insegnante che ho nel cuore, seppure non lo abbia mai conosciuto.
Si chiamava Giancarlo Trionfetti, il fratello di mia nonna.
Giancarlo si era iscritto alla facoltà di Filosofia a Urbino: studiava a casa e poi andava a tenere gli esami. Nonna mi ha raccontato che proprio al primo esame, Giancarlo litigò con il docente e se ne andò. Non credo si sia laureato.
Aveva vissuto la guerra da giovane, aveva visto da vicino gli ufficiali nazisti e nella sua mente erano impresse immagini tremende di morte.
Giancarlo era un maestro. Mia nonna mi ha sempre detto che il fratello aveva il sogno di insegnare, che poi era anche quello di mia nonna. Tuttavia, non mi ha mai raccontato niente, finché un giorno
Giancarlo è venuto a bussare alla mia porta.
2020, Padova. Ero stesa sul letto, disfatta dalla scrittura della tesi di laurea, passavo dall’italiano al latino, dal greco all’ebraico. Un mal di testa multilingue, che mi prosciugava ogni energia.
A un certo punto mi arriva una notifica: Sei stata taggata in una foto di C.T., una cugina di famiglia.
Apro e c’è una foto color seppia, con quella che sembra essere una classe. Poi c’è un maestro. Ha il viso familiare, ma non capisco chi sia. Cosa c’entro io? Sarà stato un errore.
Apro i commenti.
Il maestro Giancarlo! Ricordo quando mi ha insegnato ad andare in bicicletta.
Il mitico Giancarlo Trionfetti! Che maestro meraviglioso: mi ha insegnato ad allacciarmi le scarpe.
Insomma, il tenore dei commenti era questo. Mi arriva il cuore in gola e chiamo mia nonna.
Nonna, non ci crederai mai. Su fb C. ha condiviso una foto di tuo fratello, zio Giancarlo, e una sua classe! Ti leggo i commenti e mando la foto a mamma.
Leggo i commenti a mia mamma e mia nonna. Nonna Nanna si commuove. Da lì, la mia cantastorie preferita, comincia a raccontare.
Zio Giancarlo aveva questa classe… era gente povera. Faceva tantissima strada e andava lì prima. Accendeva il camino e scaldava la stanza. Era una scuola di montagna, immagina quanto facesse freddo. E quei poveri ragazzi non avevano vestiti pesanti: era mio fratello che li aiutava, rammendava i pantaloni, portava loro i maglioni di lana. E poi insegnava tutto: a leggere, a scrivere, a far di conto, ma anche ad allacciarsi le scarpe, ad andare in bicicletta, a nuotare!
Nonna si interrompe. Sento che le lacrime le stanno gonfiando gli occhi.
Era una bella persona zio Giancarlo. E pensa, tutti i giorni così! Se solo fosse vivo e potesse leggere i commenti…
E’ bellissimo che i propri studenti lo ricordino così, le dico. Deve essere stato davvero un buon insegnante, nonna.
No, era una bella persona, quindi un bravo insegnante.
Bingo.
Sai, Giancarlo ci teneva a quella classe. Aveva visto gli orrori della guerra, aveva visto la povertà, la malattia… quei ragazzi e quelle ragazze erano il modo di rinascere. Erano il futuro, no? La speranza
di un mondo migliore. E se pensi questo delle tue classi, Michela, di sicuro sarai una brava insegnante.
Ho l’esempio di Giancarlo stampato nella mente. Ho i miei professori, C. e F., che mi hanno aiutata quando pensavo che Michela fosse importante solo per i 9.
Il famoso portfolio che mi viene richiesto di compilare dall’Università di Bologna mi chiede perché io abbia deciso di voler fare l’insegnante. Di certo, non posso raccontare di Giancarlo, dei prof. C. e F., no. Forse la parola chiave è cambiamento. Sì, per agire un cambiamento. Per camminare a fianco del futuro, per incoraggiarlo, guidarlo. Per dare al futuro tutti gli strumenti che penso siano adatti a leggere la realtà. Finché, stanca e commossa, imparerò a rimanere indietro, guardarlo spiccare il volo e attendere che mi insegnino come si fa.
C’è chi mi dice che sì, sai sei giovane, è normale all’inizio. Poi ti indurisci. E mentre annuisco, rispondendo “chissà”, nel mio silenzio recito tutti i possibili insulti in tutte le possibili lingue che conosco.
Prof, ci può portare in quinta? Con lei l’ora passa veloce, stiamo bene.
Prof, noi possiamo firmare una petizione per farla restare?
Chissà se zio Giancarlo, disperso nella nebbia del tempo, possa ascoltare queste frasi. Chissà se mia nonna si stia commuovendo ora, anche lei immersa nel tempo in cui cammino.
Torno da C., le dico che non credo che sia sbagliato sentirmi così. Mi piace sentirmi così, sentirmi utile, sentirmi al posto giusto quando entro in aula.
Ed è giusto così. Ma cosa succede quando non sarai una buona insegnante?
Pistola fumante. Proiettile scagliato. Sento che si frantuma in mille pezzi, arriva allo stomaco.
Vuoto. Tutto è grigio.
Sangue.
Dappertutto.
Ha detto quando, non se.
Bingo.