LA SCALATA DELLA SCUOLA

A volte credi di salire, ma in realtà stai scendendo

 (Terza parte)

di Susanna Caputo

La primavera del 2021 non ha portato soltanto il risveglio della natura, ma anche la consapevolezza che il Covid se ne stava andando. Nell’aria si respirava voglia di nuovo e anch’io decisi che era ora di cambiare: chiesi il trasferimento! Basta alzatacce all’alba, tratte di treno appenniniche e orizzonti chiusi da montagne, era ora di tornare in città.

Forte di un punteggio che oramai era diventato sostanzioso, compilai la domanda con un po’ di tracotanza, scegliendo accuratamente un manipolo di licei nella cerchia dei viali (per chi è di Bologna dentro porta). Quando alla fine di maggio arrivarono i movimenti, con emozione aprii la mail per vedere cosa mi avevano assegnato e con stupore scoprii che ero arrivata alla cima: liceo classico in una centralissima via. Praticamente mi sentivo come avessi vinto una cattedra a Cambridge, ma, come avrebbe detto Paperon de Paperoni, me tapina non era proprio così.

Come da prassi chiesi un appuntamento al dirigente per presentarmi e venni ricevuta a fine giugno. Non ero certo una novellina, avevo tutte le carte in regola e una più che ventennale esperienza professionale di tutto rispetto. Varcai il portone senza titubanza. Il palazzo? Storico, non c’è che dire. Mi presentai alla portineria che mi annunciò ai piani alti, salii lo scalone sovrastato da una lapide enorme in memoria degli studenti che avevano onorato la patria nella prima guerra: qui si respirava la storia. Il piano nobile, ampio, decorato da antiche mappe geografiche, tanto marrone, non proprio il mio colore preferito. Venni accolta dalla dirigente che senza tanti preamboli mi disse che ero approdata in una scuola molto importante e che bloccò ogni mio tentativo di raccontare chi ero perché lì contava solo una cosa, che io fossi all’altezza del luogo. Poi mi annunciò la mia cattedra, e qui capii che ero sempre alla base della salita, cinque classi di ginnasio più lo studio assistito pomeridiano: praticamente la cattedra della novizia. Dieci minuti dopo ero già fuori, congedata. Un unico pensiero: c’è sempre da scalare.

Ovviamente non mi scoraggiai, ci vuole ben altro. Attesi settembre che in fretta arrivò con le prime riunioni. Scelsi un “low profile”, meglio guardarsi intorno, studiare l’ambiente. Colleghi e colleghe cortesi, seri, molto concentrati sulla scuola. Tutto molto diverso dalle sale insegnanti che avevo frequentato prima. Comunque, le mie classi erano in una succursale che poi era l’ultimo piano di una scuola media nelle vicinanze quindi il “palazzo”, almeno per quell’anno, lo avrei frequentato poco. Non so perché, ma la cosa non mi dispiacque.

E finalmente arrivò la prima campanella. Una quarta ginnasio di piccoletti e piccolette più emozionati di me mi attendeva compostamente seduti ai loro banchi. Qualche presentazione, un breve preambolo sul programma, mi muovevo con cautela. Altra campanella, altra classe, stessa musica. Dopo una settimana, cercavo ancora di capire cosa avessero di diverso quelle studentesse e quegli studenti da tutti quelli conosciuti fino ad allora, ma non coglievo sostanziali differenze se non, forse, nell’abbigliamento. La prima cosa che mi colpì successe il primo sabato all’uscita di scuola. Il vicolo del centro in cui si trova la scuola era pieno di genitori che venivano a prendere la prole entusiasti come fossero loro al primo giorno di liceo. Mai visto prima una cosa simile. Un campanello d’allarme suonò nella mia testa e presto scoprii che le mie doti divinatorie funzionavano. Nelle mie scalate precedenti avevo fatto i conti con studenti agitati, poco motivati, arrabbiati, in debito di attenzione, ma, a parte qualche caso isolato facilmente risolto, gli avi non erano mai stati un problema. Capii che nel “tempio del sapere” della scuola italiana le famiglie rappresentavano una parete di sesto grado quando dopo solo tre settimane la mia casella di posta elettronica istituzionale si riempì di mail che chiedevano la qualunque: informazioni sul programma, considerazioni sul mio operare (?), chiarimenti su ciò che secondo la loro progenie avevo detto in classe. Ero basita, e sì che ne avevo davvero visto di tutti i colori. Ovviamente, la mia reazione fu: “chiedere è lecito, rispondere è cortesia”. Avrebbero parlato i fatti.

Con l’andare del tempo cominciai il mio studio antropologico sulla sala insegnanti. Praticamente tutti docenti di ruolo, età media sui quarantacinque-cinquanta, parecchi dei quali ex studenti della stessa scuola orgogliosissimi di essere lì. Marc Augè ci avrebbe fatto uno studio: un etnologo in sala insegnanti. L’anno avanzava e io, sempre profilo basso, osservavo. Il rapporto con gli studenti era un po’ freddo, forse perché il mio stile di insegnamento non corrispondeva ai loro canoni. Mi sentivo, e vedevo, diversa dal resto del gruppo. A volte un po’ inadeguata, a volte baldanzosamente fuori dal coro. E il primo anno finì e, tutto sommato, il bilancio era positivo. Con il secondo ci fu la svolta. Non più la succursale dei piccoli, ma classi nella sede, il vero cuore pulsante del liceo.

Lì avevo una visione più ampia della situazione, sia quella degli studenti, sia dei docenti. Scoprii che i primi erano come tutti gli adolescenti che avevo conosciuto negli anni precedenti, e cioè arrabbiati, confusi, con una stima di sé bassina e tanta diffidenza nei confronti degli adulti. I miei attrezzi funzionavano ancora, cominciavano ad aprirsi e a raccontarsi. Avevano orizzonti più aperti dei miei “montanarini”, ma le stesse fragilità. Non fu molto difficile conquistare un po’ di fiducia, dopo tutto oramai avevo una certa esperienza. Le novità più interessanti, però, appartenevano all’altro gruppo primario, i docenti. Il primo aspetto che mi colpì fu una sorta di orgoglio di appartenenza, ma d’altro canto c’era d’aspettarselo, secondo il nostro sistema scolastico il liceo classico è il vertice dell’istruzione, l’apice della conoscenza, il luogo dove secondo il padre della scuola italiana, si formano le leve della classe dirigente. Quindi stare lì è come stare nella stanza dei bottoni. Solo che quei bottoni anche se li premi non muovono un bel niente. Combatti tutti i santi giorni con le stesse mancanze e povertà di tutte le altre scuole: pochi soldi, poche prospettive, tanta burocrazia, imposizioni dall’alto, e, come sempre, stipendi da fame. Insomma, ti sembra di odorare profumo del potere (o la puzza a seconda di come la pensi), ma conti sempre come il due di coppe quando briscola è bastoni (vecchia saggezza contadina). Quindi perché tanto orgoglio? Eppure, da qualche parte doveva esserci la risposta. Forse, la soddisfazione di insegnare a chi ha veramente voglia di imparare quello che tu ami. Anche su quel versante non trovavo spiegazioni. Non è che i miei studenti fossero poi così avidi di quel sapere. Se ai miei studenti del tecnico il “reported speech” interessava poco, non è che l’aoristo greco qui trovasse poi schiere di fan. Quindi la risposta era più difficile da trovare.

In realtà, si riduce sempre tutto al solito schema del sistema un po’ (solo un pochino) classista. Una volta approdati al vertice del sistema scolastico italiano ci si sente seduti al tavolo di chi conta. Un abile giochino che baratta la dignità di un lavoro retribuito il giusto e svolto in condizioni oneste con l’apparente e vana idea che se sei arrivato lì, beh te lo sei meritato. Dopo questa amara conclusione è lecito chiedersi perché son rimasta? Semplice, per lo stesso motivo per cui insegno dal 1999: per i ragazzi e le ragazze, loro non hanno tutte queste “paranoie”, si assomigliano tutti e tutte, sono il futuro e mi piace pensare che, anche se in minima parte, lo costruisco un po’ anch’io.

 

(fine)