AD "ALTEZZA"

DI BAMBINA E BAMBINO

Considerazioni sulla Scuola dell’Infanzia nelle nuove Indicazioni Nazionali

di Claudia Benedetti

 

Prima parte

“Grisa, piccino ben paffuto, nato due anni e otto mesi fa, passeggia con la bambinaia per il viale. Ha indosso una lunga mantellina ovattata, una sciarpa, un grosso berretto col bottone peloso, e le calosce imbottite. Sente un caldo da soffocare, e per giunta, dal cielo rasserenato, il sole d’aprile gli batte proprio negli occhi e gli molesta le palpebre.Tutta la sua goffa figura, dal passo timido e mal sicuro, esprime il più profondo sconcerto. Finora, Grisa non ha conosciuto che un mondo quadrangolare, in un angolo del quale sta il suo lettino, in un altro il baule della bambinaia, nel terzo c'è una sedia e nel quarto s’accende la lampada. Se si dà un'occhiata sotto il letto, si vede una bambola con un braccio rotto e un tamburo... In codesto mondo, oltre la bambinaia e Grisa, compaiono spesso la mamma e il gatto. La mamma rassomiglia alla bambola e il gatto rassomiglia alla pelliccia di papà: soltanto che la pelliccia non ha quegli occhi, né quella coda...”

(Tratto da Anton Cechov, “Grisa”, 1886)

 

In questo breve e geniale racconto Cechov compie un gesto rivoluzionario: si mette davvero "ad altezza di bambina e bambino", restituendo il mondo attraverso gli occhi di Grisa, un bambino di tre anni, nel pieno della sua confusione, meraviglia e vulnerabilità. Non c’è ironia, non c’è spiegazione adulta: solo immersione. La percezione del bambino non è ridotta a una fase immatura del pensiero, ma diventa una lente primaria e legittima, che obbliga l’adulto a rallentare, a mettersi in ascolto.

In ambito pedagogico questo cambio di prospettiva è tutt’altro che letterario: è una condizione necessaria per progettare esperienze educative autenticamente inclusive, capaci di accogliere la complessità e la verità del pensiero infantile. Mettersi “ad altezza di bambina e bambino” non è solo una metafora: significa riconoscere che ogni visione del mondo, anche la più “piccola”, è completa nel suo orizzonte, ha un valore epistemico.

Nel contesto delle nuove Indicazioni Nazionali 2025 per la Scuola dell’infanzia, è fondamentale che anche chi scrive le norme, chi pensa gli obiettivi, chi struttura i traguardi, si faccia carico di questo ribaltamento. Troppo spesso le cornici educative restano ancorate a una visione “adulta” del sapere e dello sviluppo, dimenticando che il bambin* non è un “futuro adulto”, ma una persona intera, ora.

Grisa ci ricorda che il mondo, per un bambin*, è un insieme di suoni, volti, emozioni, spazi e distanze ancora instabili, ma già decisivi. La sua realtà non è “incompleta”, è altra. Rispettarla e accoglierla significa costruire una scuola dell’infanzia che non tradisca il proprio mandato fondativo: essere il primo spazio pubblico in cui ogni bambin* si senta compreso, protetto e riconosciuto nella sua unicità percettiva, emotiva e cognitiva.

 

Le introduzioni delle Indicazioni 2012 e di quelle del 2025: analogie e differenze

Le Indicazioni Nazionali per il curricolo della Scuola dell’Infanzia rappresentano uno strumento per orientare le pratiche educative, per sostenere l’identità pedagogica della scuola e per indicarne una visione dell’infanzia. La comparazione tra le introduzioni delle Indicazioni del 2012 e quelle della bozza del 2025 rivela analogie, ma anche differenze, alcune delle quali pongono interrogativi rilevanti dal punto di vista pedagogico, didattico e culturale.

L’introduzione del 2012 si caratterizza per un’impostazione pedagogicamente solida ed esperienziale. Il linguaggio è diretto, chiaro, vicino alla quotidianità della pratica educativa. Al centro vi è il bambino/a, protagonista del proprio processo di crescita in un ambiente pensato per favorire l’esplorazione, la relazione, il gioco e la costruzione dell’identità. Gli obiettivi fondamentali della scuola dell’infanzia: sviluppo dell’identità, dell’autonomia, delle competenze e avvio alla cittadinanza, sono chiaramente delineati e fondati su una visione attiva dell’infanzia.

Il documento del 2012 si concentra sul “dentro” della scuola, sul vissuto concreto di bambini e bambine, e sull’importanza del contesto educativo che deve essere pensato e costruito dagli adulti con intenzionalità, attenzione e consapevolezza pedagogica.

L’introduzione del 2025, pur mantenendo alcuni principi condivisibili, appare più debole dal punto di vista pedagogico. Uno dei cambiamenti più evidenti è il tentativo di allargare lo sguardo verso la comunità e il territorio, con una narrazione che però risulta frammentata e priva di una visione pedagogica d’insieme. L’effetto è quello di un’elencazione di concetti e attori educativi senza un chiaro legame con la quotidianità scolastica e senza un ancoraggio robusto a un pensiero educativo coerente.

Nel confronto tra le due versioni emerge una significativa differenza anche nella definizione delle finalità educative. Nel documento del 2025 l’autonomia viene descritta attraverso concetti quali autodirezione, autoregolazione, iniziativa personale e cura di sé. Si tratta di elementi importanti, ma riduttivi se non collocati all’interno di contesti relazionali e cooperativi. Negli Orientamenti del ’91, ad esempio, l’autonomia veniva legata alla capacità di scegliere, partecipare, orientarsi in contesti normativi e relazionali diversi.

Inoltre, la finalità relativa alla cittadinanza, così ben articolata nel documento del 2012 come esperienza progressiva di convivenza, di scoperta dell’altro, di negoziazione di regole condivise, viene oggi sostituita da un cenno generico all’educazione civica e alla costruzione di relazioni positive, perdendo così la profondità e la gradualità del percorso.

Perché le Indicazioni possano davvero essere uno strumento utile e coerente per chi lavora nella scuola dell’infanzia è necessario che siano esplicitamente radicate in una visione pedagogica integrata, centrata sulle bambine e sui bambini, sull’esperienza, sulla relazione e sul gioco. Solo così potranno offrire un orientamento significativo alla progettazione educativa e alla didattica quotidiana.

 

Il maschile universale e le note a piè di pagina: giochi linguistici da scuola dell’infanzia

Prima ancora di entrare nel merito dei contenuti dei singoli “capitoli” delle nuove Indicazioni , vale la pena soffermarsi su un dettaglio apparentemente marginale, ma tutt’altro che innocente: la nota 11 a piè di pagina.

Il documento, con tono rassicurante e apparentemente inclusivo, ci avverte che, “per non appesantire la lettura del testo”, è stato deciso di utilizzare il termine “bambino/bambini” per riferirsi sia alle bambine che ai bambini e “insegnante/insegnanti” per indicare docenti di entrambi i sessi.

A una prima lettura, si potrebbe pensare a un gesto di semplificazione stilistica, una scelta pratica. A ben vedere però questo piccolo inciso ha il sapore amaro della scorciatoia ideologica. Si evita il problema della rappresentazione di genere con una strategia linguistica che, in realtà, lo elude. Si chiama maschile universale e lo conosciamo bene: è quello che “rappresenta tutti”, ma in cui molti, e soprattutto molte, non si riconoscono più. La vera ironia e la tristezza è che una tale scelta venga giustificata in nome della leggerezza. Come se dire “bambini e bambine” fosse un peso, un appesantimento testuale, un fastidio da evitare. Come se l’inclusione linguistica fosse un eccesso ideologico e non, invece, una forma minima e concreta di rispetto e rappresentazione.

Si richiama così, involontariamente, proprio ciò che spesso viene imputato alle bambine e ai bambini dell’infanzia: il meccanismo magico del “se non lo nomino, non esiste”. Ma qui non siamo nel mondo simbolico del gioco infantile, siamo dentro un testo ufficiale dello Stato che dovrebbe parlare di educazione, pluralità, crescita, cittadinanza.

In tempi in cui la scuola si confronta ogni giorno con una realtà complessa e multiforme e in cui l’identità di genere è parte integrante delle riflessioni educative, fa sorridere amaramente che si scelga di risolvere tutto con una nota a piè di pagina. Un’operazione che, nel tentativo di semplificare, semplifica troppo, lasciando fuori non solo delle parole, ma delle persone. Sarà anche solo una scelta stilistica, ma, come ben sappiamo, le parole educano, anche e forse soprattutto nei documenti ufficiali.

 

 

La scuola dell’infanzia di fronte alle sfide del tempo

Nel panorama educativo contemporaneo, la scuola dell’infanzia è sempre più chiamata a rispondere alle sfide poste da una società in rapido mutamento. Si tratta di un segmento fondamentale del percorso formativo, spesso sottovalutato, ma che in realtà rappresenta il primo vero contesto educativo istituzionalizzato per il bambino/a. È qui che si pongono le basi, non solo cognitive, ma anche emotive, relazionali, espressive di un apprendimento che accompagnerà ogni individuo per tutta la vita.

Nel testo del 2025 si valorizza il ruolo della scuola dell’infanzia come ambiente di crescita integrale, dove la bambina e il bambino è messo nella condizione di esplorare, riflettere, esprimere e costruire significati attraverso una didattica esperienziale e rispettosa dei suoi tempi evolutivi. Una visione pedagogica coerente con le attuali linee guida ministeriali e con i principi europei sull’educazione precoce di qualità; tuttavia, alcune espressioni presenti nel testo meritano un’analisi più attenta, perché rischiano di veicolare visioni pedagogiche ambigue o potenzialmente distorte.

La prima riflessione nasce attorno alla formula “germinazione di saperi che verranno formalizzati in chiave disciplinare a partire dalla scuola primaria”. Se da un lato l’immagine della “germinazione” può evocare un processo naturale e progressivo, dall’altro essa sembra collocare l’esperienza infantile in una prospettiva propedeutica rispetto alla successiva istruzione formale. In altre parole, il rischio concreto è quello di scivolare verso una forma di predisciplinarismo, dove le attività della scuola dell’infanzia perdono la loro autonomia e originalità per diventare “preparazione” a ciò che verrà dopo.

Questo approccio, se non ben gestito, può compromettere l’essenza stessa della scuola dell’infanzia, che dovrebbe invece rappresentare uno spazio di senso proprio, dove le bambine e i bambini apprendono non in vista di un futuro scolastico, ma in risposta a curiosità autentiche e motivazioni interne. Anticipare precocemente strutture e modalità di apprendimento disciplinari rischia di negare il valore del gioco, dell’esplorazione spontanea e dell’imparare con il corpo, con le mani, con le emozioni. Insomma, si rischia di trasformare l’infanzia in un’anticamera della scuola primaria, invece di riconoscerla come una stagione unica e preziosa dello sviluppo umano.

Il secondo elemento critico riguarda l’uso del verbo “guidare” nella frase: “I bambini nella scuola dell’infanzia sono guidati a conoscere e a manifestare le loro potenzialità” Sebbene il termine possa essere letto in chiave positiva, come accompagnamento, supporto, orientamento, non si può ignorare che esso contenga anche un potenziale significato direttivo. Guidare può implicare un adulto che traccia un percorso e chiede alle alunne e agli alunni di seguirlo, invece di costruire insieme a lui il cammino dell’apprendimento.

Questa visione contrasta con quanto espresso chiaramente nelle Linee pedagogiche per il sistema integrato “zerosei”, dove si afferma che “il motore dell’apprendimento sta nel bambino stesso, ma promuoverlo e sostenerlo è il grande compito che spetta all’adulto.” Qui l’adulto non è guida nel senso di colui che dirige, ma regista competente che sa osservare, leggere i segnali delle bambine e dei bambini, proporre contesti significativi, creare connessioni tra le esperienze infantili e i linguaggi della cultura. È una regia discreta ma profondamente intenzionale, capace di offrire strumenti senza imporre contenuti, di aprire spazi senza chiuderli in percorsi rigidi.

L’adulto-educatore, in questa visione, promuove ambienti ricchi di stimoli, favorisce l’autonomia, accoglie l’imprevedibile e valorizza l’unicità di ogni bambina e bambino; non conduce per mano lungo una strada già tracciata, ma cammina accanto, pronto a sostenere, ma anche a farsi da parte quando necessario.

La scuola dell’infanzia, per affrontare davvero le sfide del nostro tempo, deve rimanere fedele alla sua vocazione più profonda: essere un luogo dove il bambino è protagonista attivo e competente del proprio apprendimento, in un clima di fiducia, di rispetto e di ascolto. Solo così sarà possibile evitare il rischio di una precoce “scolarizzazione” e garantire una vera continuità educativa, fondata sulla centralità dell’infanzia e sull’autenticità delle esperienze vissute.

 

La “prescolarizzazione”

Negli ultimi anni, si è assistito a un cambiamento profondo nel modo in cui l’educazione infantile viene concepita, tanto che oggi si parla sempre più spesso di “prescolarizzazione”, ovvero l’anticipazione dell’apprendimento di competenze scolastiche già in tenerissima età; tuttavia diversi studi sollevano dubbi sugli effetti reali di questo approccio, suggerendo che l’introduzione precoce di attività troppo codificate possa comportare anche conseguenze negative per lo sviluppo delle bambine e dei bambini.

Un tempo il percorso educativo dei più piccoli iniziava in modo più graduale: c’era l’asilo, un luogo pensato per accogliere le bambine e i bambini dai tre ai cinque anni, dove il gioco libero e la socializzazione erano al centro delle attività quotidiane. Oggi l’asilo è diventato “scuola dell’infanzia” e a questa si è aggiunto il “nido d’infanzia”, che accoglie bambine e bambini a partire già dai tre mesi: di fatto entrano molto presto in un ambiente scolastico strutturato, seguendo un percorso pianificato che li accompagna senza soluzione di continuità fino alla scuola primaria e oltre.

Questa precoce immersione nel sistema educativo viene spesso giustificata con l’idea che i bambini e le bambine debbano essere “preparati” per affrontare con successo le tappe successive; tuttavia, ci si chiede sempre più spesso se questo tipo di impostazione non rappresenti una forzatura rispetto ai naturali bisogni evolutivi del bambino. Oggi, infatti, anche l’ultimo anno di scuola dell’infanzia viene spesso orientato verso esercizi e attività strutturate in chiave scolastica, a scapito del gioco libero, della creatività e dell’esplorazione.

Numerose ricerche, soprattutto negli Stati Uniti, hanno analizzato gli effetti della prescolarizzazione accademica e i risultati mostrano che, sebbene possano emergere vantaggi iniziali in termini di abilità cognitive, questi benefici tendono a svanire nel tempo. Al contrario, i bambini e le bambine che hanno vissuto esperienze educative fondate sul gioco, sul movimento e sulla socializzazione sembrano sviluppare con maggiore equilibrio competenze socio-emotive fondamentali per l'apprendimento a lungo termine.

D’altra parte, c’è chi sostiene che anticipare certe esperienze scolastiche possa aiutare a individuare precocemente eventuali difficoltà di apprendimento. È indubbio che uno sviluppo armonioso delle capacità visuo-motorie e cognitive sia importante, ma è altrettanto vero che a volte ci si dimentica che si sta parlando di bambini e bambine di appena cinque anni, con tempi e modalità di crescita che meritano rispetto e attenzione.

Il dibattito resta aperto: è davvero utile iniziare così presto un percorso educativo anticipatorio della futura scuola primaria o stiamo, in nome della preparazione scolastica, sottraendo ai bambini e alle bambine una fase fondamentale della loro vita, quella del gioco e della scoperta libera?

 

Il gioco

Nell’attuale panorama pedagogico europeo, la scuola dell’infanzia si configura sempre più come un contesto fondamentale per promuovere benessere, apprendimento e sviluppo armonico nei bambini e nelle bambine dai tre ai sei anni. In questo quadro il gioco viene giustamente riconosciuto come uno degli elementi fondanti del percorso educativo. Tuttavia occorre prestare attenzione a come si parla di gioco, a come lo si descrive e, soprattutto, a come lo si pratica nella progettualità educativa quotidiana. La scelta delle parole, infatti, non è mai neutra: incide sul modo in cui adulti ed educatori si pongono nei confronti dell’infanzia e delle sue esigenze.

Un’analisi del paragrafo proposto sull’importanza del gioco nella scuola dell’infanzia rivela una certa pesantezza strutturale del testo, accentuata da un lessico e da una sintassi eccessivamente densi, ridondanti e poco fluidi. Più si prosegue nella lettura, più si ha la sensazione che il discorso si allontani dall’esperienza reale e concreta del gioco infantile, per perdere invece il filo in un catalogo di funzioni, obiettivi e potenzialità attribuite al gioco stesso.

E proprio qui nasce una riflessione di fondo di natura pedagogica, ma anche etica: è davvero il gioco a promuovere tutte queste competenze o è piuttosto l’adulto che, attraverso la sua “promozione” del gioco, le attiverebbe? Il testo lascia intendere che sia l’intervento dell’adulto a generare nei bambini e nelle bambine quei processi di riflessione, introspezione, elaborazione simbolica, cooperazione e così via... in questa visione il gioco sembra quasi diventare uno “strumento educativo” maneggiato dagli adulti, al servizio di finalità che appartengono più al mondo scolastico che a quello dell’infanzia.

Ma il gioco, quello vero, non si impone, non si pianifica dall’alto, non si misura in esiti o in apprendimenti quantificabili; come ci ricordano le “Linee pedagogiche per il sistema integrato zerosei”, il gioco è una condotta spontanea, liberamente scelta e vissuta, che ha valore in sé e non in funzione di qualcos’altro. È un’attività che nasce dal desiderio del bambino/a di esplorare il mondo, di conoscerlo e trasformarlo secondo logiche tutte sue, spesso indecifrabili per l’adulto, ma cariche di senso per chi le vive.

Nel paragrafo, invece, si finisce per ridurre il gioco a una lunga lista di “abilità” che esso dovrebbe attivare, perdendo così di vista ciò che lo rende unico: il piacere, l’autodeterminazione, la libertà, il linguaggio personale delle bambine e dei bambini. Il rischio è quello di trasformare il gioco in una forma camuffata di didattica, svuotandolo della sua carica emotiva, espressiva e simbolica. Se il gioco viene “promosso” solo per ciò che produce (concentrazione, teoria della mente, empatia, comunicazione intenzionale…), si tradisce la sua vera natura. È proprio perché il gioco non ha uno scopo esterno, che è così potente e formativo.

In quest’ottica il compito dell’educatore non è tanto quello di “promuovere” il gioco in senso funzionalistico, ma di predisporre contesti accoglienti e ricchi di possibilità, di osservare con attenzione ciò che accade nel gioco libero dei bambini e delle bambine, di rilanciare esperienze, proporre materiali, suggerire spunti senza mai sovrastare o forzare. L’adulto deve essere una presenza regista, mai regista protagonista. Deve saper aspettare, cogliere il momento giusto, valorizzare le intuizioni dei bambini e delle bambine e, solo dopo, accompagnarli nel dare significato alle esperienze, magari aiutandoli a narrare ciò che hanno vissuto.

Anche l’ultima parte del paragrafo, dedicata al “gioco digitale” e agli spazi aumentati rischia di rimanere astratta e disconnessa dalla quotidianità della scuola dell’infanzia e se davvero vogliamo parlare di incontro ludico con l’universo digitale, è fondamentale che questa esperienza non snaturi la logica del gioco, ma ne rispetti tempi, modalità, spontaneità e senso. Il digitale non deve sostituire l’esperienza fisica, sensoriale, corporea, ma semmai arricchirla, in modo mediato, con strumenti che restino al servizio della creatività e della narrazione infantile, e non il contrario.

 

Riconoscere il valore del gioco nella scuola dell’infanzia non significa rivestirlo di mille funzioni o finalità educative, ma tutelarlo come spazio autentico dell’infanzia, dove tutto è possibile e nulla è obbligato, dove l’immaginazione prende il posto delle regole, dove il pensiero nasce dal piacere e non dalla performance. Il gioco è il linguaggio più serio delle bambine e dei bambini. L’adulto che lo sa osservare, rispettare e accogliere ha già compreso molto della pedagogia.