STORIA CHE SI RIPETE, COSCIENZE CHE TACCIONO

 

Realizzato da: A.B; D. M; F. B; F. W; G. N; H. I; M. R; O. H; T. O

prefazione di Filippo Cuti

Prefazione

"Prof ha la kefiah!" mi dice M. dando così inizio ad una conversazione che, nel tragitto tra l'aula e il laboratorio, mi rivela una voce lucidamente e profondamente consapevole del genocidio in corso a Gaza. Assieme a B. mi raccontano di sentirsi molto coinvolte nella vicenda palestinese, anche - ma non solo - come ragazze arabe, e di essere colpite da come la scuola nei propri discorsi abbia completamente ignorato un simile massacro.

 

Ora, mentre gli aspetti umani e politici di questa invisibilizzazione si leggono con contundente chiarezza nella lettera che segue, io, da insegnante, voglio soffermarmi su un punto di natura educativa. Perché, oltre all'ovvia considerazione che ignorare un tale livello di coinvolgimento e motivazione equivale perdere un'occasione preziosa di lavoro in classe, mi sembra di scorgere, nei problemi sollevati dalle ragazze, quelli che Freire chiamava i "temi generatori" e cioè quelle profonde questioni critiche che attraversano i soggetti immersi in uno specifico mondo e a partire dalle quali è possibile costruire un percorso educativo condiviso per cambiare quello stesso mondo. Dei punti di crisi insomma, dei momenti di fatica, sui quali è però possibile innestare un cammino di crescita e cambiamento che agisca non solo su chi impara, ma anche su chi insegna e sul mondo stesso. Un modo per percorrere "possibilità ancora inedite di azione".

 

Quando poi a scuola è stata accolta con entusiasmo la proposta di una mozione di supporto alla Palestina, pur contento di tanta compatta solidarietà, non potevo al tempo stesso tollerare l'idea che, mentre un gruppo di insegnanti bianchi privilegiati esprimeva la propria (tardiva, ma necessaria) indignazione, la voce forse più preziosa della scuola restasse ignorata. Per questo ho chiesto alle alunne con cui avevo avuto modo di parlare se avessero voglia di scrivere qualcosa in proposito, chiedendo anche di coinvolgere eventualmente altrx (avevo saputo da un'educatrice che erano in moltx a lamentare il silenzio su Gaza). La risposta è stata il documento che segue, firmato da un gruppo che rapidamente è diventato di nove ragazze.

 

Pavidamente, burocraticamente, il preside si è rifiutato di pubblicare sul sito della scuola sia la mozione del collegio, che, cosa ancor più grave, il documento delle alunne. 

 

Sul poggiolo di Monte Sole, alla fine della marcia per Gaza, ho visto alcune di loro reggere e agitare una lunga bandiera della Palestina: e se è vero allora che come adultx e insegnantx abbiamo il dovere di ascoltare e amplificare la loro voce, quel gesto ci dà la fiducia che nessuno avrà mai davvero il potere di metterla a tacere.

 

 

STORIA CHE SI RIPETE, COSCIENZE CHE TACCIONO

 

A COSA SERVE STUDIARE LA STORIA?

 

Studiare la storia non serve solo a passare un’interrogazione o a ricordare date. Serve a riconoscere l’ingiustizia quando si ripete. Serve a capire dove si è sbagliato in passato, per non restare in silenzio davanti a nuove tragedie. Per questo sentiamo l’urgenza di scrivere. Di parlare. Di non restare fermi davanti a quello che sta accadendo, oggi, in Palestina – e in particolare a Gaza.

 

UN POPOLO SENZA PACE:IL CONTESTO STORICO DELLA PALESTINA

 

La storia della Palestina non è solo quella di un conflitto: è la narrazione lunga e dolorosa di un popolo che ha vissuto l’espropriazione della propria terra, la perdita della propria sovranità e la frammentazione della propria identità. Comprenderla richiede empatia, ma anche l’uso critico delle fonti e la volontà di uscire da visioni semplificate.

 

1917 - la Gran Bretagna dichiarò (con la Dichiarazione Balfour) il sostegno alla creazione di un "focolare nazionale ebraico". Cosa significa? Significa creare un luogo sicuro dove il popolo ebraico potesse vivere insieme come una nazione, come se fosse una “casa comune” dove potessero mantenere la loro cultura, religione e lingua. Così, mentre gli ebrei europei fuggivano dalle persecuzioni, soprattutto dopo il nazismo, e migravano in Palestina, i palestinesi percepivano questo arrivo come una forma di colonialismo d’insediamento. Non lo vedevano come semplice immigrazione, ma come un’occupazione della loro terra, senza il loro consenso. Da qui nacquero rivolte che durarono anni.

 

1947 - l'ONU intervenne perché la situazione era diventata insostenibile.

I conflitti tra ebrei e arabi palestinesi stavano peggiorando, quindi propose un piano per dividere la Palestina in due Stati, uno per gli ebrei e uno per gli arabi.

Gli ebrei accettarono, ma i palestinesi e i paesi arabi rifiutarono, poiché nonostante costituissero la maggior parte della popolazione, a loro veniva assegnato SOLO il 45% della terra, mentre agli ebrei, che rappresentavano la minoranza, veniva dato il 55%. Il piano prevedeva, inoltre, la creazione di uno Stato ebraico in terre in cui gli arabi vivevano da secoli, senza tenere conto dei diritti e delle esigenze dei palestinesi.

 

1948- Israele dichiarò la sua indipendenza, scoppiò una guerra tra Israele e gli Stati arabi circostanti, che tentarono di fermare la creazione dello Stato israeliano. Molti palestinesi furono costretti a fuggire o vennero espulsi dalle loro terre, dando inizio alla NAKBA (la "catastrofe"). Israele vinse la guerra e consolidò il proprio territorio, ma il conflitto, la divisione e il terrore della Palestina, erano appena iniziati.

 

1967 - Guerra dei sei giorni:

Israele occupò la Cisgiordania, Gerusalemme Est, Gaza e le Alture del Golan, territori che erano sotto controllo di altri Stati arabi. Questa occupazione è considerata illegale perché viola le leggi sul diritto umanitario in particolare la Quarta Convenzione di Ginevra che proibisce l'occupazione militare di territori e il trasferimento di popolazioni civili in territori occupati. La Risoluzione ONU 242 chiese il ritiro delle forze israeliane dai territori occupati e il riconoscimento dei diritti dei palestinesi. Israele non rispettò queste richieste, continuando a espandere gli insediamenti e mantenendo il controllo su questi territori. Da allora, la Palestina è rimasta divisa, frammentata e soggetta a colonizzazione territoriale attraverso insediamenti israeliani, posti di blocco e muri nonostante tutti i tentativi di pace. Sono nate diverse rivolte palestinesi contro l’occupazione, le più note sono la prima Intifada (1987–1993) e la seconda Intifada (2000–2005). E’ in questo periodo che il potere si divide tra Fatah (in Cisgiordania) e Hamas (a Gaza), aggravando i conflitti interni.

 

LA NOSTRA VOCE PER GAZA

 

La consapevolezza è l’unica arma che abbiamo contro l’ignoranza, che ancora oggi circola in troppe forme, troppo liberamente. A Gaza non c’è una guerra. Una guerra presuppone lo scontro tra due eserciti. Quello a cui stiamo assistendo non è uno scontro, ma una sistematica eliminazione di civili. È una pulizia etnica, pianificata e organizzata, che avviene sotto gli occhi del mondo intero. Se è un genocidio o no? Ognuno la pensa come vuole, ma non siamo noi a deciderlo, facciamo parlare i massimi esperti mondiali di genocidio, compresi alcuni studiosi israeliani:

 

1. Raz Segal ,ricercatore israeliano specializzato in studi sul genocidio ,afferma:

“Conosco molti colleghi che parlano apertamente di genocidio. Conosco qualcuno che NON lo definisce così? NO.”

 

2. Le principali ONG per i diritti umani, come Amnesty International, concordano nel definirlo genocidio.

 

3. L’ONU, con Francesca Albanese, ha pubblicato due rapporti che lo confermano. Per gli studiosi, il genocidio non è un interruttore acceso/spento, ma un processo: Israele è ormai nelle fasi finali. La negazione degli aiuti, la fame imposta e il linguaggio disumanizzante ne sono la prova.

 

Anche la Corte Internazionale di Giustizia ha riconosciuto che esiste un rischio reale di genocidio: non è un’esagerazione ma un’allerta giuridica, morale e umana. Si parla di genocidio quando la distruzione di un popolo non è più solo una conseguenza della guerra ma un obiettivo. Quando non si colpiscono solo soldati ma scuole, ospedali, rifugi e ambulanze. Quando si cancella la vita, la cultura, la memoria di un intero popolo. Basta guardare i social per rendersene conto: immagini strazianti di madri che stringono i corpi scheletrici dei propri figli, morti sotto le bombe o semplicemente per fame; bambini che piangono non solo per la fame, ma per le ustioni, per le mutilazioni, o per la perdita dei genitori e dei fratelli. Alcuni scrivono i loro nomi sui propri corpi, sapendo che potrebbero morire e che quello sarà l’unico modo per essere identificati. Israele, con la giustificazione di voler eliminare Hamas, sta colpendo intenzionalmente civili, ospedali, scuole e centri di rifugio. Sta usando la fame come arma di guerra, bloccando gli aiuti umanitari. E ciò che ci colpisce ancora di più è sapere che una parte delle bombe lanciate su quei bambini è prodotta proprio in Italia – un paese che dovrebbe difendere la vita e i diritti umani. Quando sentiamo parlare di questo argomento, avvertiamo un vuoto allo stomaco. Ci sentiamo impotenti di fronte a tutto ciò che sta accadendo. Ci chiediamo come sia possibile che, a più di ottant’anni di distanza, la storia si stia ripetendo. La differenza è che oggi non possiamo più fare finta di niente: è sotto gli occhi di tutti. A cosa serve studiare la Seconda Guerra Mondiale e celebrare la Giornata della memoria , se poi permettiamo che tutto questo accada di nuovo, nel silenzio generale? Ci sentiamo tradite dalla mancanza di coerenza del mondo che ci circonda perché di fronte a sofferenze così evidenti, non si riesce ancora a usare la parola giusta: genocidio. Temiamo che quanto sta accadendo a Gaza non verrà mai riconosciuto come una grande tragedia solo perché le vittime non sono occidentali. Questa è una realtà scomoda, ma tristemente vera. Qui emerge un punto centrale: c’è del razzismo. Un razzismo che si manifesta nel silenzio, nell’indifferenza, nella mancanza di empatia verso persone che non hanno la nostra stessa pelle, religione o provenienza. E oggi, più che parlare di antisemitismo – termine ormai sempre più strumentalizzato – è importante riconoscere e denunciare l’islamofobia, che è sempre più diffusa. Alcuni esponenti pubblici israeliani hanno rilasciato gravi dichiarazioni, definendo i bambini palestinesi “piccoli serpenti” e considerandoli già da ora futuri nemici. Ci sentiamo direttamente coinvolte, non solo come musulmane e arabe e perché ciò tocca la nostra fede, ci sentiamo coinvolte in quanto persone. Chiediamo coerenza, giustizia, umanità. I morti non hanno nazionalità, etnia o religione. Non esistono vittime di serie A e di serie B. Non serve essere arabi o musulmani per stare dalla parte della Palestina. Basta essere umani e davanti alla cancellazione di un popolo, ogni essere umano dovrebbe sentire il dovere di alzare la voce. Eppure, nessuno sembra intervenire. In televisione se ne parla poco e spesso in modo filtrato o distorto. A scuola, la tragedia di Gaza non è mai oggetto di discussione. Quando è iniziata la guerra in Ucraina, invece, abbiamo partecipato a progetti, incontri , momenti di riflessione. In quel caso, ci è stato chiesto di informarci, di sensibilizzare, di partecipare.

Ora, invece, solo silenzio.

 

Questo silenzio fa male. Fa male sentire i compagni sminuire e scherzare su un genocidio. Fa male constatare che nemmeno le grandi istituzioni si esprimano apertamente. E ci si sente soli contro il mondo. Il risultato di ogni minuto di indifferenza sono dei morti e dei feriti, che sono esseri umani e non solo numeri. Se e quando se ne inizierà a parlare sarà troppo tardi, tutto sarà già accaduto e resterà soltanto un ricordo o un insegnamento. La nostra agiatezza non ci deve accecare. Il luogo in cui si nasce è solo questione di fortuna. Dire "finché non mi tocca non mi interessa" è la frase più sbagliata che si possa pronunciare: toglie senso al fatto che siamo un’unica specie. Nonostante tutto, noi continuiamo a sperare in un futuro di pace e giustizia. Chiediamo di parlarne. Di informarsi. Di guardare la verità in faccia. Perché ciò che manca oggi non sono i fatti, ma la volontà di vederli: smettiamola di chiudere gli occhi. Manifestiamo, boicottiamo chi sostiene Israele e facciamo sentire la nostra voce il più forte possibile perché più siamo e più è difficile ignorarci e reprimerci. Recatevi alle manifestazioni e sentite il senso di appartenenza e di unità di fronte a chi opprime, davanti a chi agisce con spregiudicatezza. Sappiamo che questa lettera non cambierà la situazione. Ma speriamo che possa almeno smuovere le coscienze, soprattutto dentro la nostra comunità scolastica. Perché il silenzio di fronte all’ingiustizia non è mai neutralità: è complicità. Per questo vi invitiamo a partecipare alla manifestazione del 15 giugno 2025, in solidarietà con il popolo palestinese. Marceremo insieme, uniti, per chiedere giustizia, libertà e la fine delle violenze. Non possiamo più far finta di niente. Ogni voce è importante. Ogni presenza è necessaria. Porta la tua coscienza, la tua voce, la tua volontà di cambiare perché esserci fa la differenza.

 

Noi ci saremo.

Perché stare zitti non è un’opzione.

Perché è il momento di prendere posizione, di stare dalla parte dell’umanità e dei diritti.

Perché scegliere da che parte stare è un atto di responsabilità.

 

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